16 Settembre 2024

A provocare la febbre di Francia e Germania sono state la crisi della rappresentanza, gli errori nello stile di governo, la mancanza di responsabilità della politica

L’auspicio, naturalmente, è che Francia e Germania guariscano dalla malattia che le ha colpite. Nessuno — in un’Europa sempre più interdipendente non solo economicamente e politicamente, ma nella vita reale dei suoi cittadini — può sperare di trarre beneficio dalle sventure di questi due giganti. Sarebbe un calcolo sbagliato. Ma per guarire bisogna iniziare le cure. E per farlo bisogna non solo comprendere bene i sintomi ma avere chiare soprattutto le cause.
Si potrebbe forse azzardare questa diagnosi: a provocare la febbre di Francia e Germania sono state la crisi della rappresentanza, gli errori nello stile di governo, la mancanza di responsabilità della politica. In uno scenario, naturalmente, nel quale non possono essere ignorati i fenomeni di malcontento, emersi o latenti, che attraversano le società della nostra epoca.
Guardiamo da vicino la mappa della rappresentanza in questi due Paesi. Senza dimenticare il fatto oggettivo che il governo di Parigi non ha la maggioranza in Parlamento (cosa che apre il capitolo della sempre maggior difficoltà, comune a molti Paesi europei, di fare emergere risultati di governabilità dalle elezioni) mentre quella tedesca è una coalizione di necessità, frutto del tracollo dei «partiti popolari» di un tempo.
L’esperimento macroniano di creare dal nulla una formazione centrista ha dimostrato alla lunga tutti i suoi pericoli. Les Républicains, scossi da una lunga lotta di potere, sono sempre alla ricerca di un posizionamento tra moderatismo di destra e concorrenza all’estrema destra. Il Rassemblement National lepenista sconta le sue ambiguità e i pesanti condizionamenti delle scelte internazionali. La Nupes è un’alleanza improbabile tra le anime litigiose della sinistra, monopolizzata dalle parole d’ordine ingiallite di Mélenchon e dei suoi fedelissimi. Certo, i partiti classici non esistono più. Ma è indubbio che nessuno abbia nemmeno cercato le risposte giuste a questo declino generalizzato.
Chi conosce la Germania si rende conto a prima vista che Cdu e Spd, al contrario di una volta, non sono assolutamente più espressione della società. I Verdi, pur avendo conseguito successi, non sono mai riusciti a imporsi come una vera alternativa nonostante il loro positivo viaggio verso il realismo. I liberali navigano tra i luoghi comuni di quello che gli anglosassoni chiamano «pro-business», la Linke annaspa e governa in modo ideologico nelle realtà locali , Alternative für Deutschland ha ormai gettato la maschera scegliendo l’anti-democrazia. Il disinteresse per una politica «di professionisti» si intreccia quindi anche con la difficoltà di scegliere, pregiudicando indirettamente la capacità di incidere degli eletti.
Se questi scenari hanno qualcosa di simile, al di là delle loro differenze, i problemi provocati in Francia e Germania dagli errori dello stile di governo nascono da due opzioni opposte: il decisionismo e l’indecisionismo. Tutta la vicenda della riforma delle pensioni, con la decisione di innalzare da 62 a 64 anni l’età del ritiro dal lavoro, è stata contrassegnata dall’incapacità o dalla non volontà di ascoltare, nei vari modi possibili, l’opinione dei diretti interessati e di capire i mutamenti della società. In qualunque modo si chiuda la partita, il rischio è che nei futuri libri di storia non venga scritto che era «essenziale», come sostiene The Economist, ritoccare un sistema previdenziale per cui a Parigi si spende il 14% del Pil (quasi il doppio della media Ocse) ma si ricordi soprattutto il fatto che il presidente francese abbia deciso di avvalersi dell’articolo 49 comma 3 della Costituzione del 1958 (peraltro già utilizzato spesso nel passato) approvando il provvedimento senza il voto del Parlamento. E magari, negli stessi libri di storia, troverà posto un’immagine dei disordini che stanno scuotendo un Paese arrabbiato. Tutto è stato gestito con una visione inopportuna della leadership.
A proposito di leadership, questa è la cosa che manca finora nell’avventura di Olaf Scholz in cancelleria. Una coalizione «semaforo» come quella uscita vittoriosa dal voto tedesco (Spd, Verdi e liberali), alla sua prima prova a livello nazionale, avrebbe avuto bisogno di un patto programmatico da rispettare fino alle virgole e di una forte capacità di guida dell’uomo che la presiede. Tutto ciò non è avvenuto. Certo, l’ex sindaco di Amburgo si è trovato di fronte questioni decisive (come la guerra in Ucraina, la fornitura di armi a Kiev, l’aumento dei costi energetici, l’inflazione) ma ha sempre adottato la linea del rinvio, facendo le sue tardive scelte quando la situazione era ormai fuori controllo e non riuscendo mai a bloccare le tensioni tra le anime dello schieramento che lo appoggia. Sta facendo rimpiangere Angela Merkel, specialista dell’attendere, sì, ma fino al momento giusto.
Ultimo punto, la mancanza di responsabilità della politica. Ha sempre meno senso, nel mondo di oggi, alimentare conflittualità legate agli interessi nazionali sapendo che il passaggio obbligatorio non può che essere europeo. È il caso, solo per fare due esempi recenti, della posizione francese sul nucleare o di quella tedesca, al di là del compromesso che si è delineato, sul divieto di vendita a partire dal 2035 delle auto a benzina o diesel. Indebolire l’Europa privilegiando interessi nazionali non è mai saggio, al di là di qualche vittoria parziale. E scontrarsi al proprio interno su tutto, in una continua campagna elettorale, riduce la forza di un Paese.

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