22 Novembre 2024

Le crisi finanziarie che abbiamo vissuto negli ultimi 15 anni avrebbero dovuto insegnare molto a chi queste situazioni doveva controllare. Ed evitarle

Dobbiamo iniziare ad aver paura davvero? La settimana scorsa la crisi in California di una banca legata alla Silicon Valley, simbolo della tecnologia motore della crescita. Un istituto tanto interconnesso da aver nel suo nome, Silicon Valley Bank (SVB), la ragion d’essere. Ieri in Svizzera, la caduta di un altro istituto, il Credit Suisse, anch’esso con nel nome la presunta quanto iconica solidità elvetica. Due inneschi per un incendio che ha coinvolto i mercati mondiali crollati in Europa come in America.
La risposta alla domanda iniziale dovrebbe essere «no». Ma solo in teoria. E non dovremmo aver paura per almeno un paio di motivi. Il primo è che paradossalmente le crisi finanziarie che abbiamo vissuto negli ultimi 15 anni avrebbero dovuto insegnare molto a chi queste situazioni doveva controllare. Ed evitarle. Il secondo è che, in entrambi i casi, la caduta delle due banche è legato non tanto a sofisticati investimenti in esotici derivati o a chissà quale truffa. Ma a ragioni chiare ed evidenti.
In California è stata l’incapacità di comprendere che se i tassi di interesse erano aumentati del 4% nel giro di poco tempo qualcosa doveva cambiare nella strategia della banca. (E analoga riflessione dovranno fare anche gli istituti europei).
In Svizzera era chiaro che inanellare nel giro di un paio d’anni investimenti sbagliati, perdite, fuga dai depositi e dalle gestioni, bilanci da chiarire, e infine l’ingresso di azionisti mediorientali ricchi quanto poco accorti, poteva avere conseguenze.
Ma conoscere le ragioni della caduta delle due banche non spinge certo a essere tranquilli. I crolli sui mercati di ieri fanno capire quanto il nervosismo pervada il mondo dell’economia. In fondo SVB investiva in «noiosi» quanto sicuri titoli di Stato americani. Il Credit Suisse aveva varato un aumento di capitale miliardario. Ma abbiamo capito purtroppo a nostre spese quanto possano essere fatali in questa situazione imperizie nella gestione delle banche e una vigilanza non all’altezza per dire chiaramente carente.
Il crollo delle Borse di questi giorni (e ieri è toccato anche a Wall Street che sembrava avesse digerito la crisi della SVB), dimostra che la mancanza di fiducia in un uno o due istituti fa presto a trasformarsi in panico generale. Ogni crisi bancaria inizia dal fatto che investitori, imprese e cittadini tolgono la fiducia al proprio istituto ritirando depositi e investimenti. Ma se il panico si diffonde, il tutto si trasforma in perdurante crisi. Ed è questo che va evitato.
Almeno la lezione del 2008 dovrebbe essere stata imparata. Iniziò a cadere la Bear Sterns, oggi dimenticata. Ma anche 15 anni fa quel segnale fu sottovalutato. E quando, sempre nel settembre 2008 fallì Lehman che diventò l’emblema della crisi, la bufera fu tale che solo parecchi anni dopo il mondo intero riuscì a uscirne. E qual era la lezione? Che la stabilità finanziaria va preservata o sarà l’intera attività economica a soffrirne.
Avere strade in disordine o senza manutenzione non permette ad automobili e camion di poter viaggiare. Alla stessa maniera, un sistema finanziario traballante frena o addirittura blocca l’economia. E le banche sono l’architrave di quel sistema. «Attaccate» a un istituto ci sono milioni di persone, migliaia di imprese. Ma questo non deve significare conferire a banche e banchieri una sorta di salvacondotto.
La vigilanza è fondamentale. L’inchiesta interna avviata alla banca centrale americana, la Fed, per il caso SVB, mostra che qualche domanda devono farsela al di là dell’Atlantico. L’aver abbassato di molto la guardia, e la vigilanza, su banche regionali che per le dimensioni possono però avere effetti sistemici è stato un errore. E analoghe domande devono porsi in Svizzera.
L’Europa, forse proprio perché ha subito pesantemente gli effetti della crisi del 2008, ha varato norme molto stringenti. I frequenti stress test della Bce per capire quanto le banche possano reggere agli urti delle crisi dovrebbero confortarci. La solidità degli istituti dovrebbe essere garantita. Quello che non è garantito è che la sfiducia si diffonda.
In Italia le perdite di Piazza Affari sempre superiori a quelle delle altre Borse ci fanno temere. In pancia degli istituti ci sono molti titoli di Stato. Che significa debito pubblico sempre troppo elevato. Ma va tenuto conto che le perdite superiori di Piazza Affari sono anche legate al fatto che il «peso» dei titoli bancari alla Borsa di Milano è molto superiore che nel resto d’Europa. E quindi quando arretrano quei titoli per noi la caduta è più marcata. Il dolore sarà sempre più elevato. A meno che, laddove le crisi si sono verificate, non si agisca rapidamente.
La Casa Bianca con Joe Biden ha usato per SVB parole analoghe a quelle di Mario Draghi nel 2012 quando di fronte alla crisi dell’euro disse che la Bce era pronta a fare qualsiasi cosa per salvare la moneta unica. Il celebre «Whatever it takes» che, c’è da chiedersi, se fosse stato pronunciato questa volta dalla politica sulla Grecia nel 2011 forse si sarebbe evitato l’approfondirsi della crisi.
Le parole di Biden, lunedì, sono servite addirittura a far guadagnare Wall Street. Già oggi si vedrà se la Banca centrale svizzera e la vigilanza Finma riusciranno a mettersi al fianco di Credit Suisse per poi però, e lo devono ai cittadini non solo elvetici, individuare responsabili e responsabilità. Anche perché fare finta che nel mondo della finanza la situazione non stia rapidamente cambiando sarebbe colpevole.
I tassi di interesse sono aumentati attorno al 4% negli Stati Uniti e di circa il 3% in Europa. Molti istituti bancari (SVB compresa), hanno pensato di continuare nelle strategie degli anni scorsi senza problemi. Anni in cui liquidità e tassi a zero erano la regola. Altri, in questi mesi, hanno creduto di poter guadagnare su mutui e prestiti mantenendo la remunerazione dei depositi quasi a zero. E contemporaneamente premiando soci e manager con dividendi e buy back. Non proprio un ricostituente per la fiducia e le aspettative di imprese e famiglie.
Ma anche banchieri centrali e politica devono fare qualche riflessione. È vero che l’inflazione è la tassa più ingiusta che taglia in modo non visibile ma reale gli stipendi, frena i consumi e gli investimenti. E quindi il rialzo dei tassi di interesse è lo strumento principe per combatterla. Ma, come sottolineato nei giorni scorsi dal governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, farlo è un conto, continuare ad agitarlo come spettro un altro. All’opposto, l’errore di una politica che vorrebbe una liquidità infinita a disposizione. La misura di parole e atti, l’azione, concertata, in momenti come questi, è decisiva. Ne va di una stabilità senza la quale la vera crisi è dietro l’angolo.

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