Fonte: Corriere della Sera
di Beppe Severgnini
In tre anni, è cambiato tutto. E quello che sta accadendo in questi giorni è solo un esempio della nuova confusione anglosassone. Ed è sotto gli occhi di tutti. Lo sbalorditivo caos a Londra e a Washington è l’esito di un processo che dura dal 2016
Il primo ministro britannico Boris Johnson, spettinato e gesticolante, canta vittoria: è convinto di aver chiuso, dopo quaranta mesi, la grottesca saga di Brexit, e di poter lasciare l’Unione Europea il 31 ottobre con un accordo. Peccato che il Consiglio e il Parlamento Europeo non si siano ancora espressi e, soprattutto, che la Camera dei Comuni non abbia ancora votato. Cosa succederà sabato a Westminster non è chiaro. Una cosa appare certa, tuttavia. I parlamentari del Democratic Unionist Party, e i loro alleati tra i conservatori nostalgici, hanno capito cosa significa lasciare di fatto l’Irlanda del Nord nell’unione doganale europea, come prevede il nuovo accordo: si tratta di un passo, forse decisivo, verso la riunificazione dell’isola. Poche ore prima, dall’altra parte dell’Atlantico, il presidente americano Donald Trump, in presenza di uno sbalordito Sergio Mattarella, ha ignorato i richiami ai valori comuni, ha rifiutato una tregua sui dazi(«Sono un risarcimento, non una ritorsione»), ha accusato l’Unione Europea di varie scorrettezze. E ha liquidato così gli alleati curdi, che aveva appena abbandonato al proprio destino: «Non sono angeli. Per certi versi, il PKK è peggio dell’Isis». Nei giorni scorsi, alla vigilia della partenza del suo vice Mike Pence per la Turchia, Trump aveva scritto una lettera a Recep Tayyip Erdogan, e l’aveva chiusa così: «Non fare il duro. Non essere sciocco. Ti chiamo più tardi». Da Ankara hanno fatto sapere che il presidente turco l’aveva presa e «buttata nel cestino».
C’è qualcosa di surreale, nella politica internazionale. Qualcuno dirà: c’è sempre stato. È vero. Ma alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti, anche nel momenti di tensione e disaccordo, il mondo riconosceva una sorta di primato. A quelle due antiche democrazie di lingua inglese molti di noi guardavano come a un punto di riferimento. Se ne potevano discutere le scelte, ma si ammirava il rispetto delle convenzioni e delle procedure, anche nei momenti più drammatici.
Questo rispetto formale ha prodotto, negli ultimi decenni, conseguenze sostanziali. Anche nelle parti del mondo in cui le scelte di Washington e Londra venivano osteggiate — pensate al Medio Oriente, dove i confini britannici e le guerre americane hanno segnato la storia recente — la convinzione era di avere un solido interlocutore. Ostile, per alcuni governi e regimi nel mondo. Affidabile, per noi europei, che sugli Stati Uniti e sul Regno Unito abbiamo contato, e contiamo ancora. Potevano sbagliare e compiere scelte che non capivamo. Ma erano paesi amici e alleati. Non solo: erano termini di paragone. Ci servivano per misurare la nostra crescita democratica ed economica.
In tre anni, è cambiato tutto. Quello che sta accadendo in questi giorni è solo un esempio della nuova confusione anglosassone. Ed è sotto gli occhi di tutti. Il caos a Londra e a Washington — dove la speaker della Camera dei Rappresentanti e il Presidente sono arrivati a darsi vicendevolmente del malato mentale — è sbalorditivo. Non nuovo, tuttavia. È l’esito di un processo che dura dal 2016, l’anno di Brexit e dell’elezione di Donald Trump. Un processo, insieme, politico e psicologico. Non è cambiata la classe legislativa, governativa e amministrativa dei due Paesi: è cambiata la leadership, oggi impulsiva e imprevedibile. Due aggettivi che, fino a poco tempo fa, nelle semplificazione del mondo, venivano associati al carattere e alla politica delle nazioni latine.
Lo sconcerto che si respira in Europa è una conseguenza di questa inattesa mutazione. Se nei paesi germanici e scandinavi, davanti alle capriole americane e britanniche, prevale la sorpresa, in Italia, Francia e Spagna si percepisce lo sconcerto. È inutile negarlo: dal dopoguerra, per sessant’anni, Usa e Uk hanno fornito grandi punti di riferimento. Le loro tradizioni, le loro economie, le loro diplomazie, i loro apparati informativi e culturali, la lingua inglese: impossibile negarne l’influenza. Siamo orfani dei nostri precettori: ed è una sensazione strana.
L’America si dimostrerà più forte di un presidente impulsivo ed eccentrico, ne siamo convinti. La Gran Bretagna saprà gestire le conseguenze di una scelta emotiva come Brexit: resilienza e stoicismo sono virtù che restano. Ma è inutile negarlo, in giornate come queste. Se due grandi colonne della democrazia occidentale tremano, chi ci vive sotto non può sentirsi tranquillo.