21 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Marco Imarisio

Il Movimento che nacque come non partito, munito solo di un «non Statuto» e di poche regole, si è normalizzato fino a diventare, ironia della sorte, un vero e proprio partito.


Al posto del teatro Smeraldo di Milano dove il 4 ottobre 2009 Beppe Grillo inaugurò le sue Cinque stelle oggi ci sono i ristoranti Eataly. Peraltro di proprietà dell’imprenditore Oscar Farinetti, fino a poco tempo fa renziano di ferro. Non c’era neppure bisogno di evocare il cuoco giapponese vincitore del campionato mondiale di pasta, come ha fatto il cofondatore del M5S per convincere i seguaci renitenti a digerire l’alleanza con il Pd. Le metafore, non solo alimentari, sono ovunque intorno a noi. Tutto cambia, in dieci anni. Cambiano i luoghi e le persone, figurarsi i movimenti, che per loro natura sono composti di materia instabile. L’abituale raduno appena concluso a Napoli era molto temuto dai vertici pentastellati, perché era il primo appuntamento pubblico dopo l’ennesima metamorfosi seguita all’alleanza con il Partito democratico. La previsione generale era che in questo matrimonio di convenienza il Pd avrebbe perso la sua anima. Può succedere anche questo, ma quel che è avvenuto finora è una repentina costituzionalizzazione del suo partner di governo.
Il Movimento che nacque come non partito, munito solo di un «non Statuto» e di poche regole, si è normalizzato fino a diventare, ironia della sorte, un vero e proprio partito. Con un manuale di regole interne alto due dita, diverso dagli altri solo per curiose scelte linguistiche, laddove per «facilitatori» si deve invece leggere segreteria politica, con tanti saluti ai vecchi meet up, le cellule originarie progettate per essere uno strumento di democrazia dal basso. Non mancano neppure le correnti, sinistra e destra contrapposte, al punto che ieri a Luigi Di Maio nella sua prolusione finale è uscita di bocca la parola «sintesi» tanto amata dai vecchi leader democristiani nonché panacea di ogni dissenso interno.
Non aveva certo tutti i torti Pierluigi Bersani quando nel marzo 2013, dopo la «non vittoria» alle elezioni politiche, scelse di sedersi al tavolo con gli esponenti di M5S, per il celebre incontro in diretta streaming che gli valse solo critiche e sberleffi. L’ex segretario del Pd era convinto del fatto che un movimento non abbia mai una forma precisa. Soprattutto allo stato nascente, viene modellato dalle circostanze e dagli impulsi esterni, dalle contaminazioni. Un movimento non è mai un monolite, semmai ricorda la creta. A quell’epoca i tempi non erano maturi. E neppure i Cinque Stelle. Furono proprio loro a rifiutare con forza ogni ipotesi di accordo, nel timore di sporcarsi con le impurità della politica. Le hanno accettate cinque anni dopo, alleandosi con la Lega.
Ma gli effetti della cura Salvini hanno anche rappresentato un notevole bagno di realtà per M5S e i suoi massimi dirigenti. Non è possibile stare dentro le istituzioni e al tempo stesso scimmiottare il decisionismo e la carica destabilizzante dell’alleato leghista cercando improbabili avventure fuori porta con i Gilet gialli e altre scelte estemporanee che testimoniavano soltanto una sensazione di subalternità, quando non di inadeguatezza. Per giocare, se uno lo vuole fare davvero, si deve stare alle regole, bisogna accettarle senza fingere una diversità ormai rintracciabile quasi esclusivamente nei libri sulle origini del Movimento. La lezione che M5S sembra avere imparato è questa. Sta diventando un partito, più o meno come li abbiamo conosciuti finora, con un leader, Beppe Grillo, che detta la linea e la benedice cercando di tenere insieme tutte le anime della sua creatura.
La trasformazione non è certo indolore, e le pene di questa fase di passaggio sono leggibili sull’espressione patibolare dello stesso Di Maio quando deve parlare della nuova alleanza. L’attuale ministro degli Esteri è forse il più post ideologico tra le figure di spicco dei Cinque stelle, e per attitudine personale il meno propenso a un’alleanza di centrosinistra. E le scorie accumulate in anni di reciproci insulti con i nuovi alleati rimangono difficili da smaltire. Quel che M5S non può fare è augurarsi di essere soltanto l’ago della bilancia «di ogni governo», come ha detto domenica Di Maio dal palco di Napoli, barricandosi dietro l’idea che «i concetti di destra e sinistra sono una perdita di tempo». Può darsi che sia anche così, in tema di ricorrenze tra poco saranno trent’anni dalla caduta del muro. Ma questa perenne liquidità che permette di adeguarsi a ogni forma imposta dalla politica non può durare a lungo. Altrimenti diventa solo un alibi per tenersi sempre e comunque le mani libere. La mutazione è avvenuta. I Cinque stelle ormai sono un partito, adesso devono trovare una loro identità.

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