Fonte: Corriere della Sera
di Massimo Gaggi
Questa volta le votazioni a metà mandato presidenziale sono molto sentite. Gli esiti peseranno anche sulla futura campagna elettorale di Trump
Tra 48 ore il voto americano di oggi finirà in archivio: saremo già nella campagna 2020 per la rielezione di Trump. Ma come si entrerà in quella battaglia politica ce lo dirà l’esito della consultazione di midterm che Donald Trump, pur non essendo sulle schede, ha trasformato in un referendum su di lui battendo tutte le piazze e sovrapponendo la sua oratoria incendiaria al confronto politico tra i candidati che si contendono i seggi di deputati, senatori e governatori.
A rischiare grosso sono soprattutto i democratici che, stando ai sondaggi, hanno ottime possibilità di riconquistare la Camera mentre al Senato i repubblicani non dovrebbero perdere il sottile vantaggio che hanno oggi. Se il presidente dovesse riuscire a tenere anche il controllo della Camera con gli ultimi comizi nei quali gioca la sua carta preferita, cavalcare le paure della gente mescolando immigrazione e terrorismo, la sinistra rimarrebbe annichilita: incapace di arrestare l’onda populista e nazionalista alimentata da Trump, nonostante i suoi metodi brutali e il suo sistematico ricorso ad affermazioni palesemente false.
Lo scenario più probabile, la vittoria dei progressisti alla Camera, creerebbe non pochi problemi a Trump che non avrebbe più la maggioranza parlamentare per far passare le sue leggi e dovrebbe fronteggiare inchieste parlamentari a raffica con l’obiettivo finale di arrivare all’impeachment del presidente.
Ma gli consentirebbe anche di trasformare la campagna 2020 in una guerra di trincea, la sua specialità, e di scaricare sui democratici le colpe della fine del boom economico che si delinea all’orizzonte. In passato queste votazioni a metà di un mandato presidenziale, pur avendo la loro importanza (più volte hanno sottratto il controllo del Congresso al partito che aveva conquistato la Casa Bianca creando condizioni di «governo diviso», se non di vera e propria ingovernabilità) sono state relativamente poco sentite. Non in questo 2018 di rivoluzione populista, di risveglio dell’attivismo delle donne e di trasformazione del modo di fare politica. I democratici hanno reagito con grande energia investendo nella campagna elettorale una quantità di risorse finanziarie senza precedenti, ma non si sono ancora ripresi dall’infarto provocato dall’elezione di Trump.
Capace di trovare in decine di collegi candidati in grado di sfidare con successo politici repubblicani sulla carta più forti, il partito di Obama e dei Clinton è oggi, però, privo di una chiara leadership nazionale, frammentato com’è tra la vecchia guardia moderata di Joe Biden e di Nancy Pelosi e un’ala radicale che è sempre più forte. Qui la leadership del vecchio Bernie Sanders potrebbe passare a candidati più giovani e decisi a combattere Trump con le sue stesse armi, dall’uso di una retorica incendiaria a un populismo di sinistra.
Mentre il partito repubblicano è ormai sotto il pieno controllo di Trump, anche perché i suoi contestatori interni sono scomparsi (John McCain) o hanno preferito non ricandidarsi (il leader della Camera, Paul Ryan, e i senatori Bob Corker e Jeff Flake), i democratici si ritrovano a dover scegliere lo sfidante del presidente-immobiliarista fra una trentina di candidati tra loro molto diversi. La sola città di New York ne esprime almeno due — il miliardario ed ex sindaco Michael Bloomberg e la senatrice Kirsten Gillibrand — oltre a una giovane rockstar della politica: la pasionaria di origini portoricane Alexandria Ocasio-Cortez ancora troppo giovane, coi suoi 29 anni, per correre per la Casa Bianca. Ma capace con la sua verve e la rivendicazione di idee socialiste di contribuire a trascinare a sinistra il partito.
Spinte alle quali i leader storici del partito, pur preoccupati, non riescono a opporsi, come dimostra, ad esempio, il fatto che Barack Obama, dopo aver appoggiato alle primarie l’avversario della Ocasio-Cortez, aveva continuato a ignorarla anche dopo il suo successo. Solo un mese fa ha deciso di darle la sua benedizione.
In una stagione nella quale la sinistra liberalpreme per contrapporre a Trump un candidato altrettanto radicale sostenendo che la sua elezione ha dimostrato che non è più vero che le elezioni americane si vincono al centro, sarà importante vedere come se la caveranno i democratici che hanno condotto le campagne più efficaci in Stati conservatori, come Kara Eastman in Nebraska e Beto O’Rourke in Texas. Così come sarà importante misurare il grado di mobilitazione delle donne, e anche quello di giovani e minoranze etniche la cui bassa partecipazione al voto del 2016 è stata la causa principale della sconfitta di Hillary Clinton.
Se nemmeno le dure mosse di Trump sull’immigrazione e l’ambiente e il suo machismo provocheranno una vera mobilitazione, per i democratici il sentiero del 2020 si farà ancora più stretto. Anche perché i sondaggi dicono che, pur perdendo per strada qualche frangia delusa, Trump è riuscito a mantenere il consenso del grosso del suo elettorato che apprezza il suo stile di politico bulldozer: una fama rafforzata dalla determinazione con la quale ha sostenuto contro tutto e contro tutti la nomina del giudice Kavanaugh alla Corte Suprema. Sarebbe un messaggio significativo anche per l’Europa, a sua volta spazzata da tempo da venti trumpiani.
Nel caso, improbabile, di vittoria democratica sia alla Camera che al Senato, per Trump le cose si complicherebbero ulteriormente e le pressioni per l’impeachment crescerebbero ma, al netto dell’inchiesta del superprocuratore Mueller, i tempi sarebbero comunque molto lunghi: il tentativo di defenestrare il presidente diventerebbe inevitabilmente il cuore della campagna 2020.