Fonte: Huffington Post
di Giuseppe Colombo
Vaccini, Recovery, Alitalia, Autostrade: nomine ad hoc e regia a Palazzo Chigi. Lo scarto del premier rispetto all’era Conte
La portata della discontinuità di Mario Draghi si capirà dall’impatto delle prime mosse. A iniziare dall’assetto della macchina dei vaccini, tolta a Domenico Arcuri e data al generale Francesco Paolo Figliuolo. Ma a spingere in una direzione di rottura rispetto al governo Conte non è solo l’affidamento della struttura commissariale per l’emergenza a un profilo specifico, legato all’esperienza e al know how dell’Esercito e della sua logistica. Ci sono anche altri elementi. Tutti accomunati da un’impronta: la regia di palazzo Chigi. Articolata sostanzialmente su tre assi. Il primo è rappresentato da Draghi in persona: frontman con Bruxelles sulle questioni dei brevetti e della produzione dei vaccini, ma anche sul dossier Alitalia. Il secondo è la squadra dei tecnici di palazzo Chigi: passa da qui, ad esempio, il piano B per Autostrade. Il terzo, collegato al secondo, è l’asse con il sottosegretario Roberto Garofoli.
Vaccini e Alitalia. Perché conta il brand Draghi
Gli elementi che mettono in evidenza il ruolo di frontman del premier sulla questione vaccini hanno a che fare con un piano nazionale e con uno europeo. Lato italiano: i due nuovi uomini della macchina. Non solo Figliuolo, ma anche Fabrizio Curcio, il nuovo capo della Protezione civile. La nomina di Curcio è arrivata alle quattro del pomeriggio del 26 febbraio. Annunciata da palazzo Chigi con un comunicato stampa. Un’ora prima, sempre a palazzo Chigi, si era tenuta una riunione del Consiglio dei ministri, ma i partecipanti erano all’oscuro della scelta che avrebbe comunicato Draghi un’ora dopo. E fonti di governo spiegano a Huffpost che anche la decisione di sostituire Arcuri con Figliuolo è stata una scelta che ha contemplato la consultazione di pochissimi tra gli uomini più fidati del premier. Tutti uomini di palazzo Chigi. In primis Garofoli.
Il lato europeo della questione contempla il ruolo che Draghi sta esercitando negli incontri che contano. Come il Consiglio europeo della scorsa settimana, dove il premier ha chiesto conto del rallentamento della campagna di vaccinazione alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. La riduzione e i rallentamenti delle consegne delle dosi, in particolare da parte di AstraZeneca, hanno portato Draghi ad affermare che “le aziende che non rispettano gli impegni non dovrebbero essere scusate”. E – qui il lato europeo e il lato italiano si collegano – Draghi è sempre il frontman diretto anche di un’altra questione: la produzione dei vaccini. Al ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti è stato affidato il lavoro sporco, cioè capire come e soprattutto quando le imprese italiane possono partecipare alla missione della riconversione. Ma la testa politica – quanto e come l’Italia sarà parte di questo progetto, che sarà necessariamente europeo – è sempre riconducibile a Draghi. Sarà lui a calibrare l’impegno italiano sulla base dell’impegno degli altri Paesi, dato che se si arriverà alla produzione locale bisognerà tenere conto che le fiale gireranno in tutta Europa. Non resteranno cioè solo nel Paese che le ha prodotte. Considerando che il gap dell’Italia è forte, la missione di cui è intestatario Draghi è cruciale per due motivi. Il primo è spingere il fronte della farmaceutica italiana verso tempi più veloci, il secondo è capire quanto l’Italia può usufruire del lavoro che faranno gli altri Paesi.
Altra questione su cui Draghi si sta esponendo in prima persona è Alitalia. Durante il governo Conte gli incontri si tenevano al ministero dello Sviluppo economico o a quello dei Trasporti. Il pallino politico era nelle mani dei ministri Stefano Patuanelli e Paola De Micheli. È in quei ministeri che è nata Ita, la nuova Alitalia. Il Tesoro è stato il dicastero centrale per le messa in campo dei tre miliardi con cui è stata finanziata la newco. Le interlocuzioni con Bruxelles sul passaggio dalla vecchia alla nuova compagnia aerea hanno toccato palazzo Chigi solo lateralmente. Ora gli incontri si svolgono a palazzo Chigi. Tutti presieduti da Draghi. Due in tre giorni (sabato e lunedì). E questo perché è Draghi che sta confezionando personalmente la strategia che toccherà poi ai ministri competenti in materia (il ministro dell’Economia Daniele Franco, quello dei Trasporti Enrico Giovannini e Giorgetti) illustrare alla commissaria europea Margrethe Vestager. Il premier sta spendendo tutto il suo peso europeo. L’Europa chiede discontinuità tra la vecchia e la nuova Alitalia: no a un travaso tout court. Il piano italiano punta ad ottenere il via libera da parte dell’Antitrust Ue al trasferimento della parte aviation (flotta, aerei e slot) a Ita attraverso un processo di vendita diretta e esclusiva. Così come a un trasferimento, seppure temporaneo, dei rami della manutenzione e dei servizi a terra (per poi metterli a gara). L’Europa deve dire sì. Così come deve dire pronunciarsi sui 55 milioni di ristori che servono alla vecchia Alitalia per tenersi in piedi.
La regia del piano B su Autostrade a palazzo Chigi
Atlantia – la casa madre di Autostrade – ha mandato una lettera alla Cassa depositi e prestiti e ai fondi Blackstone e Macquarie per dire che l’offerta da 7,9 miliardi per cedere l′88% della società autostradale (9,1 miliardi per il 100%) non va bene. Il prezzo è troppo basso. Nella lettera di dieci righe, firmata dal presidente Fabio Cerchiai e dall’amministratore delegato Carlo Bertazzo, si apre a un’interlocuzione per migliorare l’offerta. Ma Cdp e i fondi non sono intenzionati a mettere più soldi sul piatto. I margini per una chiusura positiva sono al momento nulli. Ecco perché, il Governo ha già messo in conto un piano B: via lo schema che passa per l’acquisto di Cdp. Se l’offerta decade si passa a una stretta sulla concessione. A occuparsene, anche qui, tutti uomini di palazzo Chigi. Esperti e profondi conoscitori del lato giuridico-amministrativo della questione. Garofoli, ma anche il capo del Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi Carlo Deodato e il segretario generale Roberto Chieppa (già firmatario delle lettere della trattativa con i Benetton quando al governo c’era Conte).
L’asse Draghi-Garofoli. La cinghia di trasmissione con il Mef
Appena il premier ha messo piedi a palazzo Chigi, la prima riunione, durata un intero pomeriggio, è stata quella con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Roberto Garofoli. L’ha voluto Draghi in persona. Si fida di lui come di nessun altro. Hanno la stessa matrice, quella legata al ministero dell’Economia, dove Draghi è stato direttore generale per dieci anni (dal 1991 al 2001) e dove Garofoli è stato capo di gabinetto (con i governi Renzi, Gentiloni e Conte 1). Con Garofoli il ruolo di sottosegretario alla presidenza del Consiglio è tornato centrale. Chi ha avuto modo di sondare il lavoro quotidiano a palazzo Chigi racconta che Draghi e Garofoli si parlano spesso. E solo a lui il premier delega incontri che sono preparatori a vertici o decisioni importanti. Soprattutto Garofoli è l’uomo che suggella la cinghia di trasmissione tra palazzo Chigi e il Tesoro, quest’ultimo affidato all’altrettanto fidato Franco. Chi ha in mano le carte del Recovery plan sono loro. I tecnici. Quelli scelti da Draghi.