21 Novembre 2024
guerra ucraina macerie carroarmato

guerra ucraina macerie carroarmato

Quella che doveva essere un’operazione di pochi giorni si trasforma in un disastro già nelle prime ore della guerra. Gli ucraini resistono, contrattaccano e oggi hanno riconquistato molti territori. Ora la sfida decisiva è nel Donbass

La sconfitta dell’esercito russo si consuma subito, già il 24 febbraio 2022, nelle primissime ore della guerra. Attacca a sorpresa, ha dalla sua il vantaggio di poter dettare la tempistica e il luogo dove colpire, ma incredibilmente fallisce. E quando gli storici nel futuro racconteranno dell’inizio dell’invasione dell’Ucraina non potranno che caratterizzare la battaglia di Hostomel come il momento cruciale in cui Vladimir Putin e il suo stato maggiore si lasciano sfuggire la supremazia dell’iniziativa, costretti da quel momento a riadattare continuamente i piani le strategie a quelli dei comandi di Kiev. Compiono il primo passo, ma poi sono obbligati a rincorrere. Volevano tutto e subito, ma si erano clamorosamente sbagliati sulla volontà di resistenza ucraina, sull’atteggiamento occidentale, sulle loro armi vetuste e sul loro esercito alla prova dei fatti inadeguato. Gli ucraini si rivelano maestri nelle nuove tecnologie, nell’utilizzo agile dei droni, nel monitoraggio delle comunicazioni nemiche, le loro piccole formazioni veloci agiscono in modo autonomo e disorientano le molto più numerose e lente unità russe.

Il sacrificio umano. Si stimano già 350 mila morti
Quello stesso Putin, che sino a pochi giorni prima del 24 febbraio minimizzava parlando di «esercitazioni» di una piccola parte delle sue truppe lungo i confini meridionali sino alla Bielorussia e accusava gli americani di essere «guerrafondai» perché dall’inizio dell’autunno precedente denunciavano che la Russia stava preparando una vera guerra in grande stile, si ritrova a dover combattere con modalità che non aveva seriamente previsto. Così oggi, un anno dopo, le sue truppe stanno dissanguandosi nella cittadina di Bakhmut — un obbiettivo secondario, minuscolo rispetto alle aspirazioni iniziali, dove gli ucraini hanno già comunque costruito altre due linee di difesa fuori dalla zona urbana in caso di ritirata — e dichiareranno vittoria ai quattro venti se dovessero prenderla con la speranza di occupare poi tutto il Donbass, pur sapendo che il conflitto resta del tutto aperto. Difficile prevedere cosa avverrà nel 2023, si stimano a circa 200.000 le perdite militari russe, tra morti feriti e dispersi sino ad ora. Quelle ucraine sarebbero circa la metà, cui si sommano circa 50.000 civili. Certamente gli aiuti militari occidentali saranno fondamentali per aiutare un Paese di circa 40 milioni di abitanti contro un nemico che ne conta quasi 4 volte di più, possiede un territorio immenso ed ormai si dimostra disposto ad impiegare tutte le sue risorse pur di prevalere.

I calcoli sbagliati. Alle 8 è disfatta russa all’aeroporto
Il giudizio è in ogni caso netto: il 2022 rivela al mondo la pochezza delle capacità militari russe, espone gli errori grossolani della loro intelligence, incluso quello imperdonabile della sottovalutazione dell’avversario, e invece mostra il pericolo e l’aggressività delle aspirazioni imperiali di Putin e del suo entourage, che ricorrono persino alla minaccia atomica pur di tentare di rilanciare quell’immagine aurea di superpotenza< che vorrebbe nostalgicamente riesumare i defunti fasti dell’Unione Sovietica trionfante contro l’esercito tedesco nel 1945.
Alle 5,30 inizia l’invasione, due ore e mezza dopo una trentina di elicotteri Mi-8s arrivano nel cielo dell’aeroporto di Hostomel, a nord di Kiev, una quarantina di chilometri da Maidan e dai palazzi presidenziali. Gli ucraini li stanno attendendo ed è un massacro. Ce lo mostreranno un mese dopo, ridotto a un gigantesco campo di ferraglia annerita dal fumo e sommerso dai rottami di velivoli mischiati agli scheletri dei blindati. Tra loro anche i resti dei giganteschi Antonov, i cargo più grandi del mondo. «Li aspettavamo. L’intelligence americana ci aveva avvisato, poi siamo stati noi armati di missili terra aria statunitensi Javelin e britannici Nlaw ad annientare i paracadutisti russi. Il peggio per loro è stato quando siamo riusciti ad abbattere tre Iliuscin-76 con a bordo il meglio delle teste di cuoio, circa 600. In un pugno di minuti Putin si è visto annientare il fior fiore del suo corpo d’invasione», raccontava quei giorni un colonnello dell’antiaerea.

Cambio di strategia. Da blitz a guerra patriottica
Doveva essere un blitz velocissimo mirato a uccidere o catturare Volodymir Zelensky e i suoi fedelissimi entro due o tre giorni, quindi occupare i gangli vitali dello Stato nella capitale e infine prendere il Paese intero. Da quel momento sarà però una cosa del tutto diversa: uno sforzo bellico di logoramento prolungato che contempla l’impegno dell’intera comunità nazionale, anche se per mesi a Mosca si continua a ribadire la formula farsa dell’«operazione speciale». L’imbroglio sarà evidente a dicembre, quando il ricorso da parte di Putin alla retorica della «grande guerra patriottica» serve per mascherare lo stravolgimento delle dinamiche e degli obbiettivi del combattimento: si è passati dal Blitzkrieg per «affrancare gli ucraini dal tallone dei nazifascisti» alla mobilitazione generale contro «l’aggressione della Nato».
Nelle prossime settimane potrebbero venire reclutati circa 2 milioni di russi, oltre dieci volte il numero dei soldati mobilitati un anno fa. Già a ottobre il sistematico bombardamento russo contro le infrastrutture civili, le centrali elettriche, le stazioni di pompaggio del sistema idrico mirava a fiaccare la volontà di resistenza della popolazione. Quegli stessi ucraini che prima dovevano essere «liberati dai fratelli russi» vanno adesso collettivamente puniti, fatti soffrire in massa. Magie della propaganda negli Stati totalitari: nella narrativa di Mosca gli aggressori diventano aggrediti, l’attacco preventivo come difesa. Si comprende così quanto anche gli sviluppi più recenti siano la conseguenza diretta di quel «piano B» messo in piedi dal Cremlino dopo i primi insuccessi sul campo e che però non era stato davvero seriamente preparato. Un gigantesco convoglio composto da migliaia di mezzi di ogni tipo con a bordo oltre 60.000 soldati entra in Ucraina dalla Bielorussia a fine febbraio, occupa e supera la centrale nucleare di Chernobyl e mira direttamente sulla capitale. Kiev si trincera, in città s’impone il coprifuoco notturno nel terrore delle cellule di filorussi che si dice siano pronti a compiere attentati e assassini mirati per creare il caos. Il governo distribuisce fucili e munizioni, ovunque vengono costruite trincee e barricate, sui balconi s’impilano le bottiglie molotov.

Resistenza e reazione. Kiev si difende, orrore a Bucha
Ma a questo punto avviene l’inaspettato: mentre tutti i maggiori esperti e commentatori internazionali danno per scontata la vittoria russa entro breve, gli ucraini resistono e contrattaccano. «Non voglio un taxi per scappare, resto qui, combatto e muoio se necessario, piuttosto dateci armi», replica Zelensky a Joe Biden, il quale vorrebbe mandare un commando in elicottero per portarlo in salvo all’estero. Poi la propaganda Usa e di Kiev inizia a parlare di «difficoltà» russe. Ovviamente noi giornalisti non vi crediamo: com’è possibile che i russi non ce la facciano?
Eppure, sono i racconti delle decine di migliaia di sfollati da Hostomel, Bucha, Irpin e dagli altri centri urbani invasi in fuga verso Kiev che nella loro spontanea immediatezza aiutano a far comprendere. Che fanno i soldati russi quando entrano nelle vostre case? Chiediamo. «Si fiondano in cucina, aprono il frigorifero, svaligiano le dispense e mangiano o rubano. Sono affamati, le loro razioni K sono scadute. Poi prendono vestiti e coperte, indossano ancora le uniformi estive, non resistono ai meno quindici delle notti invernali. Li abbiamo visti fermare le auto diesel nelle strade per pompare il carburante dai serbatoi, i loro tank sono a secco», rispondono. Si delinea così il quadro di un esercito che non era affatto pronto ad affrontare ciò che incontra. Dopo la prima sorpresa, la resistenza ucraina entra in azione. Tra i russi è il panico. Avevano spiegato loro che sarebbero stati accolti «con pane e sale», come recita l’antica formula di benvenuto contadina locale, ma adesso dalle case gli sparano contro, cresce la resistenza partigiana. A metà marzo reagiscono: a Bucha si consuma l’orrore con torture, fucilazioni, spari contro chiunque giunga a tiro. Più tardi, troveremo centinaia di auto crivellate dai proiettili cariche di bagagli, vestiti, giocattoli e con i sedili imbrattati di sangue.

Mire su Odessa, Mariupol capitola
A inizio aprile i russi abbandonano la regione di Kiev. La prima fase della guerra — quella decisiva dove Putin voleva tutto per poi andare a minacciare la Moldavia annettendosi la Transnistria filorussa e rilanciare il peso di Mosca sulle regioni europee perse dopo il crollo del Muro di Berlino — può considerarsi terminata. Gli ucraini hanno combattuto praticamente da soli, garantiti dal lavoro capillare e massiccio dei loro volontari, forti dell’esperienza maturata sin dai tempi dell’invasione russa nel 2014 della Crimea e della nascita delle cosiddette repubbliche autonome di Lugansk e Donetsk nel Donbass. Anche allora i soldati di Mosca combattevano in prima linea e furono elementi determinanti per garantire il successo delle milizie locali filorusse: dalla battaglia per il capoluogo del Donetsk a quella per Debaltsevo, nove anni fa senza gli effettivi russi il neonato esercito ucraino avrebbe senza dubbio prevalso.
Intanto, però, i comandi del Cremlino hanno attaccato su più fronti. Nel nord-est minacciano Kharkiv, prendono Izium, occupano tutto il sud sino a Kherson, a ovest del fiume Dnipro, sfiorano il capoluogo di Zaporizhzhia dopo essersi impadroniti della stazione nucleare. Putin vuole a tutti i costi Odessa per impedire l’accesso ucraino al Mar Nero e strangolare l’export del grano, oltreché mettere in ginocchio l’economia nemica. La capitolazione di Mariupol il 20 maggio, con la resa dei suoi 2.500 difensori incluso il meglio del battaglione volontario Azov, segna uno dei punti più difficili per l’Ucraina. Kiev si difende imputando ai soldati russi crimini orrendi: violenze sessuali a ripetizione, bambini torturati in massa, deportazioni forzate. Ma non serve esagerare, se non a indebolire le accuse ucraine, gli orrori russi sono già abbastanza gravi. A fine mese Zelensky decide di licenziare Lyudmila Denisova, la responsabile della commissione parlamentare incaricata di documentare le violazioni dei diritti umani, che mente ed enfatizza i dati, trasformando le atrocità nemiche in vana propaganda.

Il contrattacco. Le armi Nato fanno la differenza
La situazione cambia ancora tra giugno e luglio, quando l’arrivo delle armi occidentali (assieme alle truppe ucraine addestrate al loro utilizzo), specie i lanciarazzi americani Himars, i droni e le artiglierie in dotazione tra i Paesi Nato, aiuta a fare fronte contro le migliaia di cannoni e Katiusce che a questo punto Mosca sta impiegando ovunque in modo massiccio. Anche lo spazio aereo resta conteso: Mosca spara i missili, ma la sua aviazione evita di volare nei cieli avversari. Poche decine di armi Nato mutano le sorti dello scontro, la superiorità tecnologica occidentale è palese.
Le difficoltà di Mosca si evidenziano dalla frequenza con cui Putin sostituisce i generali al comando delle operazioni: tre capi di Stato maggiore si avvicendano in meno di un anno, l’intera catena di comando ne risente e ciò favorisce la crescita d’importanza della Wagner, la compagnia di contractor privati che oggi è forte particolarmente nella zona di Bakhmut. Il suo proprietario, l’oligarca Yevgeny Prigozhin, può aspirare ad un ruolo di maggior influenza militare e politica al Cremlino. La censura sulla stampa russa zittisce gli oppositori alla guerra, però fatica a far tacere le voci dei «falchi», che non nascondono il crescente malcontento nell’esercito specie contro i metodi brutali utilizzati dalla Wagner per reclutare i corpi d’assalto tra i criminali comuni nelle prigioni. Tra luglio e agosto guadagnano punti occupando Severodonetsk e Lysychansk.

L’Ucraina si riprende Kherson
Per gli ucraini i risultati arrivano invece tra settembre e novembre. L’abile capo di Stato maggiore, Valerii Zaluzhniyi, aveva fatto credere di volere cercare di riprendere il mammellone di Kherson nel sud, ma ai primi di settembre lancia le sue truppe nell’est, verso Izium e il Donbass settentrionale. I russi sono colti di sorpresa e abbandonano il territorio lasciando sul campo immense scorte di armi e munizioni. Quindi è davvero la volta di Kherson, che viene liberata l’11 novembre sino al Dnipro. Se inizialmente i russi erano riusciti a impadronirsi di circa il 30 per cento del territorio ucraino, a fine anno sono scesi sotto il 20. Ma la guerra continua. La Russia sta preparando una nuova offensiva in vista della primavera.

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