21 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Franco Venturini

L’Isis è stato ridimensionato ma non sconfitto: bisognerebbe finire il lavoro. Il presidente pensa invece che riportare a casa i soldati americani aumenti il consenso


Antonio Megalizzi che Trento e lo Stato italiano hanno ieri solennemente onorato, due giovani turiste nord-europee vengono barbaramente uccise in Marocco e gli inquirenti sospettano che sia stata opera dell’Isis, la Turchia sta per scatenare una nuova offensiva anti-curda a est dell’Eufrate, ed ecco che Donald Trump sceglie questo momento per annunciare che le forze Usa lasceranno la Siria «perché l’Isis è già stato battuto».
Da ogni parte del mondo, ieri, sono piovute sulla Casa Bianca critiche impietose. Ma il colpo più forte al presidente lo ha vibrato dimettendosi il generale Mattis, il segretario alla Difesa da tempo in rapporti difficili con Trump. In Siria l’Isis è stato notevolmente ridimensionato – si fa notare al Presidente – ma dalle loro residue roccaforti i tagliagole sono ancora in grado di colpire e di mandare consigli oppure ordini alle loro succursali, dall’Afghanistan alla Libia. Questa non è l’ora del ritiro — si dice ancora — bensì quella di finire il lavoro.
Osservazioni giuste e peraltro vicine a tutti gli Alti gradi militari, ma poco attente alle consolidate priorità di Trump: il Presidente pensa ai voti, è già in campagna per il 2020, e sa bene che «riportare a casa i ragazzi» è un concetto che allarga il consenso, qualunque cosa accada in Siria. Poco importa che gli alleati curdi che più di tutti hanno combattuto l’Isis vengano mollati, in pratica traditi (e la credibilità Usa non ne trarrà giovamento) .
Poco importa inoltre che la Siria venga definitivamente lasciata all’influenza russa-turca-iraniana, anche se la presenza militare americana nel nord-est della Siria era soltanto di duemila uomini delle forze speciali (ma il loro addestramento, le loro tecnologie, i loro aerei e la loro bandiera riequilibravano il numero ridotto) . Quel che conta per Trump è essere e apparire decisionista, capo, interessato soltanto a quel che piace all’America che lo ha votato e che è pronta a rifarlo mentre i democratici stentano a trovare un candidato presidenziale.
L’interrogativo di fondo che tutti ci riguarda, allora, si pone con forza sempre maggiore: se Trump vincerà nel 2020, e nei due anni che mancano per arrivarci, come sarà, dove approderà il mondo cambiato all’insegna dell’America First? Quali saranno le garanzie della sicurezza internazionale che sin qui, prima e dopo la caduta del Muro di Berlino, ci hanno accompagnati dopo la Seconda guerra mondiale? Tornerà ad essere la prima preoccupazione delle nostre società l’alternativa tra pace e guerra, oggi sommersa da altre litigiosità e praticamente ignota ai giovani?
Ieri ha parlato Putin, che spera ancora di tornare ad incontrare Trump ma si va accorgendo di aver sbagliato tattica e cavallo con le sue interferenze elettorali. E nell’attesa ha comunque voluto lanciare un messaggio tanto semplice quanto terribile: il mondo sottovaluta il rischio di una catastrofe nucleare. E questa volta il capo del Cremlino non ha tutti i torti.
Nel prossimo febbraio, se non si muoverà qualcosa prima, gli Usa usciranno dal trattato Inf che eliminò gli euromissili. Putin ha promesso «adeguate risposte» , e non tratterà di fiorellini. Peraltro all’origine della denuncia americana starebbero violazioni russe del trattato, ma Mosca rivolge identiche accuse a Washington. E nel mezzo, tra le due superpotenze nucleari, ci siamo noi europei e c’è la nostra sicurezza legata a un filo se Russia e Usa non riusciranno a chiarirsi per tempo. Ipotesi improbabile, perché Trump vuole soprattutto e comprensibilmente non avere le mani legate in Estremo Oriente, al cospetto dei missili di corto e medio raggio cinesi e nord-coreani. E non basta. Se un dialogo russo-americano non ci sarà o non si estenderà anche al trattato «New Start» (armamenti balistici intercontinentali) che scade nel 2021 ma potrebbe sin d’ora essere rinnovato per cinque anni, sarà un intero sistema di controllo degli armamenti nucleari a decadere.
Esiste un legame, forse, tra la Siria e gli arsenali del terrore? Si, esiste nei processi decisionali che sempre meno si affidano ai negoziati, esiste nello stravolgimento della politica a tutto beneficio dei Social di ultima generazione che condizionano i governi e insidiano la democrazia (magari con qualche aiutino, vero Vladimir? ) . Assistere contemporaneamente a questi eventi, a una lotta meno forte contro il terrorismo nella sua culla siriana, al delinearsi un calendario incombente che promette il ritorno di una gara al riarmo nucleare, all’involuzione di una democrazia che scivola verso meno credibili e più autoritari sistemi di rappresentanza, è una brutta tela di fondo per i nostri piccoli proclami di vittoria o di sconfitta in quel braccio di ferro con Bruxelles che avremmo dovuto risparmiarci.

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