22 Novembre 2024

Fonte: La Repubblica

Mappe. Le prossime elezioni locali e il referendum d’autunno ci diranno cos’è oggi il Pd

di Ilvo Diamante

Sono passati vent’anni dal 21 aprile 1996. Quando l’Ulivo, guidato da Romano Prodi, vinse le elezioni. Di fronte alla coalizione di Centro-destra costruita da – e intorno a – Silvio Berlusconi. Il Polo per le Libertà. Anche l’Ulivo, d’altronde, era una coalizione. Aggregava i post-comunisti del Pds, i post-democristiani (di sinistra) del Ppi, insieme alle forze della sinistra socialista, riformista. Cattolico-sociale ed ecologista.
Dopo la vittoria elettorale, l’Ulivo di Prodi governò poco più di due anni. Nell’ottobre del 1998, infatti, il governo venne sfiduciato da alcuni parlamentari della sinistra neo-comunista. Ma proseguì, sotto la guida di Massimo D’Alema. Fin dalle origini, dunque, emergono i limiti di questo nuovo soggetto politico, che riunisce le tradizioni e le componenti del centrosinistra. Anzitutto: la difficile coesistenza fra tradizioni politiche e sociali diverse. Tra centro e sinistra. In particolare: fra post-democristiani e post- comunisti. In secondo luogo: il conflitto fra leader. Meglio, l’assenza di una leadership condivisa. O, comunque, dominante. Così, dal 1996, il Centro-sinistra inizia un faticoso cammino. Alla ricerca del Centrosinistra- senza-trattino. I suoi soci fondatori, a loro volta, hanno cambiato nome e ragione sociale. Per limitarci a soggetti principali: da Pds a Ds, da Ppi alla Margherita, passando per i Democratici. Mentre, fra il 2005 e il 2007, l’Ulivo si è trasferito sotto le bandiere dell’Unione. Dunque, “coalizione”. E questa resta la discriminante nel concepire il Centrosinistra. Con o senza trattino. Cioè: come coalizione oppure soggetto unitario. Una novità importante, anzi, essenziale, sotto questo profilo, è l’introduzione delle Primarie. Come metodo di scelta dei candidati. E dei dirigenti. Ciò avviene nel 2005, in occasione delle elezioni regionali. Quindi, in vista delle elezioni politiche del 2006. Che riporteranno Romano Prodi alla guida del Centrosinistra e del governo.
Ispiratore del progetto, accanto a Romano Prodi, è Arturo Parisi. Che vede nelle primarie non solo un metodo di selezione del gruppo dirigente e dei leader. Ma un marchio, un elemento di distinzione politica. Per usare le sue stesse parole: il “mito fondativo” del Partito dell’Ulivo, in alternativa all’Ulivo dei partiti. Un progetto che, nel 2007, sfocia nel Partito Democratico. Echeggia, non per caso, l’esperienza americana, di una democrazia maggioritaria, bipolare e tendenzialmente bipartitica. Personalizzata. In fondo: presidenziale. Tuttavia, il Partito Democratico non dissolve le divisioni da cui sorge. E a cui vorrebbe – dovrebbe – dare risposta. La distanza, nel Centrosinistra, fra tradizione comunista e democristiana, in particolare, rimane evidente. E si riproduce nella geografia elettorale del Paese. Come emerge chiaramente alle elezioni del 2008, quando il Centrosinistra si presenta unito nel Pd, guidato da Walter Veltroni. E viene sconfitto nettamente da Silvio Berlusconi. Anche perché non riesce a liberarsi dei vincoli territoriali del passato. Il Pd, infatti, risulta tanto più forte dove, nei primi anni Cinquanta, lo era già la Sinistra comunista. E, dunque, appare tanto più debole dove, invece, era più forte, sul piano elettorale, la Democrazia Cristiana. Così, quasi sessant’anni dopo, il Pd fatica ad affermarsi nel Nord e, in particolare, nel Lombardo-Veneto, presidiato dal Forza-Leghismo.
D’altro canto, dentro al Pd si riproducono tensioni “personali” che complicano l’affermarsi di “un” leader. Il passaggio dall’Ulivo all’Unione, fino al Partito Democratico, non risolve le difficoltà del Centrosinistra-senza-trattino. E il Pd resta un progetto e un soggetto incompiuto. Almeno, fino all'”irruzione” di Matteo Renzi. Il quale è favorito, anzitutto, dal declino di Berlusconi. Che apre un vuoto in-colmabile in un Centrodestra creato a sua immagine. Renzi è, per storia personale, un post-democristiano. Cresciuto nell’Ulivo di Prodi. Nella Toscana Rossa. Si afferma attraverso le Primarie. Dopo aver perduto, dapprima, “contro” Bersani. Cioè: contro l’eredità post-comunista. Nel Pd diventa, così, segretario “contro” il passato. Contro D’Alema e Rosy Bindi. Cioè: contro la tradizione post-comunista e post-democristiana. Così, alle elezioni europee del 2014, per la prima volta, il “suo” Pd supera e scavalca gli antichi confini. E vince dovunque. Ben oltre le regioni rosse. Espugna, infatti, le province del Nordest e della Lombardia. Bianche e anticomuniste. Da sempre. D’altronde, l’antica frattura ideologica è stata rimpiazzata, negli ultimi anni, da una nuova frattura. All’anti-comunismo si è sostituita l’antipolitica. Interpretata da Grillo e dal M5s. Che, per questo, non hanno una geografia specifica. Perché l’antipolitica, l’opposizione alla politica e ai politici “tradizionali” sono trasversali. Da destra a sinistra, da Nord a Sud, passando per il Centro. Renzi è abile a interpretare entrambe le fratture. Quella ideologica ma anche quella anti-politica. Lui, il “rottamatore”, non ha vincoli né appartenenze. Inoltre – e soprattutto – fa del Pd un “partito del leader”. Centralizzato e personalizzato. Il PdR. Il Partito Democratico di Renzi. Che tende ad evolvere nel PdR, il Partito di Renzi. Soprattutto se il referendum costituzionale di ottobre, trasformato in un referendum personale pro o contro di lui, si traducesse una investitura personale.
Così, vent’anni dopo l’avvento dell’Ulivo, il Centrosinistra sembra approdato a un Partito del Leader, a-ideologico e a-territoriale. Maggioritario, referendario e, tendenzialmente, presidenziale. Resta da vedere quanto sia stabile, questo approdo. Quanto possa resistere al ritorno dei personalismi e delle tradizioni – ben espresse dall’opposizione della Sinistra interna. Quanto possa proseguire senza il sostegno della storia e del territorio. Dell’organizzazione e della società. Quanto e se il PdR si possa affermare, senza il contributo del Pd, com’è avvenuto alle Europee. Non ci

vorrà molto a verificarlo. Basterà attendere qualche mese. Le prossime amministrative e il referendum d’autunno ci diranno se davvero l’Ulivo sia divenuto un albero senza radici. Un volto senza storia. O se la sua storia possa continuare, con volti e nomi diversi.

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