Fonte: Corriere della Sera
di Daniele Manca
Impegnati in una defatigante discussione sulle regole dell’Europa o sulle vessazioni subite da questo o quel Paese, da questo o quel commissario, ci stiamo perdendo la sostanza di quanto accade fuori dai nostri confini
Dovremmo evitare che l’Italia appaia al mondo come un problema. Che i mercati si convincano di essere di fronte a un Paese dal quale prendere le distanze. Primo perché non è così. Secondo perché a pagarne il prezzo saremmo solo noi italiani. Eppure sembra si stia facendo di tutto per apparire in quel modo. La soglia dei 200 punti dello spread tra titoli di Stato italiani e quelli tedeschi, rappresenta il limite oltre il quale la discesa potrebbe essere difficile da arrestare. È innegabile che a tre mesi dal giorno delle elezioni, il 4 marzo scorso, si sia ingenerata nel Paese e tra chi ci guarda da oltre frontiera, l’idea di un’Italia avviata a rinchiudersi in se stessa. Complice un dibattito politico, a partire da quello tra i due partiti che si stanno adoperando per costruire un governo, che pare avere mutuato il messaggio alla Trump, di un’Italia First. Un messaggio che non fa i conti con il fatto che alle spalle della Casa Bianca c’è l’America, sia in termini di potenza economica, la prima al mondo, sia come forza e struttura politica basata su una Costituzione che dura dal 1776. L’Italia ha invece resistito alla crisi grazie a una lungimirante strategia della Bce di Mario Draghi che ha concesso all’Europa tutta e al nostro Paese, il tempo necessario per reagire. Un ombrello che peraltro è destinato a chiudersi nei prossimi mesi. I provvedimenti poi dei governi passati oggi appaiono insufficienti anche se sono riusciti a fare da argine a possibili peggioramenti.
Ma c’è un altro elemento soprattutto, che ci ha permesso di rilanciare, in un quadro dove dal 1997 al 2017 siamo cresciuti solo del 3% in termini di prodotto interno lordo (peggio anche della Grecia). Si tratta di una conformazione economica particolare. Fatta di molte piccole, medie imprese e delle poche grandi che con tenacia hanno continuato a tenere il punto sui mercati nazionali e internazionali. Una manifattura, la seconda d’Europa, che è presente in tutte le principali filiere tecnologiche e industriali globali. Una struttura che ha tratto alimento e sviluppo dall’apertura dei mercati e quindi dall’andamento di partner commerciali come la Germania e l’Europa in generale (primi negli interscambi), gli Stati Uniti (secondi). L’export italiano ha toccato la cifra di 450 miliardi lo scorso anno (peraltro in crescita rispetto al 2016 del 7%). E persino l’agricoltura, pur essendo solo il 10% di quella cifra, ha iniziato a contribuire in modo significativo allo sviluppo sui mercati internazionali.
Ora, tra Stati Uniti e Cina è in atto una serrata negoziazione sul fronte dei dazi che rischia di far pagare all’Europa gli effetti. La disattenzione italiana non solo indebolisce la posizione contrattuale europea ma rischia di far fare al nostro Paese la figura del vaso di coccio stretto tra interessi francesi e tedeschi. Interessi che l’attivismo di Macron e Merkel sul fronte internazionale indica con quale determinazione siano pronti a difendere. Noi, invece, impegnati in una defatigante discussione sulle regole dell’Europa o sulle vessazioni subite da questo o quel Paese, da questo o quel commissario, ci stiamo perdendo la sostanza di quanto accade fuori dai nostri confini. Con l’unico risultato di apparire come una nazione che volta le spalle ai propri partner pensando addirittura a forme di monete parallele come i minibot.
È per questo che ha un senso tenere d’occhio lo spread che ormai ha superato quota 190 punti. Da un lato perché il suo innalzamento ha effetti immediati e dolorosi sui conti pubblici. Dall’altro perché nel chiedere in prestito agli italiani e agli investitori esteri 2.300 miliardi, è giusto preoccuparsi se quei risparmiatori e quegli investitori ci chiedono maggiori interessi (lo spread crescente) per continuare a prestarceli. Ma ancora di più, dovremmo tenere alta l’attenzione al segnale racchiuso in quel differenziale: potremmo trovarci nella condizione di non essere noi a decidere di andare avanti in modo più indipendente o peggio da soli, ma i nostri interlocutori a pensare di lasciarci andare. In modo più o meno implicito. Soprattutto se rischiamo di danneggiare l’Europa intera.