Fonte: Corriere della Sera
di Massimo Gaggi
Si dice che la fissa il presidente l’abbia da quando, nel 1988, un giapponese gli soffiò sotto il naso il pianoforte del film «Casablanca» che stava comprando a un’asta
Vincere. Mettere i bastoni tra le ruote del rivale. Usare come una clava un’arma negoziale che nessun altro ha: il mercato americano, il più vasto del mondo. C’è tutto questo nell’ostinazione con la quale Donald Trump usa i dazi. Soprattutto nella guerra commerciale con la Cina, ma anche con l’Europa (l’introduzione, da oggi, di nuovi balzelli sulle auto importate dagli Usa è sospesa per sei mesi, ma la minaccia resta) e perfino con Canada e Messico che continuano a pagare le sovrattasse Usa sui prodotti metallurgici, pur avendo siglato un patto commerciale con Washington sostitutivo del Nafta. Per molto tempo gli operatori economici si sono illusi che i dazi fossero uno strumento al quale il presidente avrebbe fatto un ricorso limitato e temporaneo, per ottenere condizioni migliori nei rapporti commerciali con gli altri Paesi. Ma, dopo due anni e con la prospettiva di un conflitto con Pechino destinato a protrarsi a lungo, i mercati si stanno abituando alla nuova realtà.
«Per Trump», dicono voci anonime dall’interno della Casa Bianca, «i dazi sono più ancora di un’ossessione: sono una religione. Inutile tentare di convincerlo che sono dannosi». Del resto la fissa dei dazi The Donald l’ha dagli anni 80 quando, imprenditore quarantenne, li invocava contro l’invasione delle esportazioni giapponesi. Per il New York Timesla sua campagna contro il Paese del Sol Levante cominciò nel 1988, quando un giapponese gli soffiò sotto il naso il pianoforte del film Casablanca che stava comprando a un’asta. Può anche darsi che alla fine si arrivi a una tregua Usa-Cina per evitare danni troppo gravi (Trump pensa che non ce ne siano per gli Usa e che, comunque, il pugno di ferro con la Cina sia molto popolare nel suo elettorato) ma ormai una cosa è chiara: i due giganti mondiali, che fino a poco fa sembravano destinati a integrarsi, sono entrati in un conflitto di lungo termine che va oltre la guerra commerciale. È, sempre di più, anche scontro di civiltà economiche: l’America chiede impegni precisi su rispetto della proprietà delle tecnologie, dumping, imprese sovvenzionate che alterano la concorrenza, mentre Pechino rifiuta vincoli nell’area dei principi. Bisogna prendere atto che, dopo aver cambiato la politica con populismo e sovranismo e rovesciato le agende su globalizzazione e immigrazione, la rivoluzione trumpiana è arrivata al commercio internazionale.