Per l’Italia, con un debito di oltre il 130% del Pil, il rialzo globale dei tassi e il nervosismo dei mercati è molto costoso e rende lo spazio di manovra per le politiche di bilancio molto stretto
L’autunno economico si annuncia caldo: volatilità dei mercati in un contesto di incertezza sulla direzione della politica monetaria, paura che il regime di bassi tassi di interesse si sia concluso rendendo più urgente una correzione del debito, contrasti in Europa sulla riforma del patto di Stabilità il cui futuro condizionerà la politica di bilancio della Ue nei prossimi anni e su cui si riapre un fronte con la Germania la quale torna ad affermare principi di eccessiva rigidità delle regole.
Partiamo dai mercati internazionali che sembra stiano improvvisamente punendo la prodigalità fiscale degli ultimi anni. Nei giorni scorsi abbiamo assistito ad un riprezzamento dei Titoli di Stato americano. I tassi di interesse a lungo termine salgono perché ci si attende che le banche centrali manterranno i tassi a breve a livelli elevati per lungo tempo. Quello che avviene negli Usa contagia l’Europa e rende la sostenibilità del debito accumulato in risposta alle molteplici crisi degli ultimi quindici anni problematico. Se questo crea tensione negli Stati Uniti, che hanno il privilegio di detenere la moneta di riserva e possono quindi contare su uno stabile afflusso di capitali, altri Paesi con alto debito, che non godono di questo privilegio, tremano.
Per l’Italia, con un debito di oltre il 130% del Pil, il rialzo globale dei tassi e il nervosismo dei mercati è molto costoso e rende lo spazio di manovra per le politiche di bilancio molto stretto.
Far parte dell’Unione monetaria ci rende un po’ meno vulnerabili, perché protetti dalla potenza di fuoco della Banca Centrale Europea ma questa protezione non è garantita e dipende dal consenso tra Stati membri sul percorso monetario e fiscale e dall’adesione alle regole comuni.
Il negoziato sulla riforma del Patto di stabilità è particolarmente importante in questo contesto. Un mancato accordo o un ritorno alle vecchie regole avrebbe conseguenze sui mercati finanziari e l’Italia sarebbe la prima a farne le spese.
Per capire dove siamo è interessante ripercorrere la storia della riforma. Nel novembre 2022 la Commissione Europea propone un nuovo impianto del Patto di stabilità che sostituisce a regole arbitrarie su deficit e debito, un sistema focalizzato sulla sostenibilità del debito a medio termine, che prevede la presentazione a Bruxelles da parte di ciascun Paese di un piano a medio termine per la diminuzione del debito da valutare poi insieme. Una riforma che evita gli aspetti più pro-ciclici del vecchio sistema in quanto i Paesi sono tenuti a formulare l’aggiustamento in termini di spesa strutturale netta da interessi e con un orizzonte temporale sufficientemente lungo affinché il costo si possa spalmare nel tempo in modo da non ammazzare la crescita. Facendo tesoro degli errori del passato, inoltre, la riforma prevede la sospensione delle regole in caso di una crisi economica.
Purtroppo, questa formulazione suscita obiezioni soprattutto da parte della Germania, preoccupata della sua eccessiva flessibilità. In uno sforzo di mediazione, quindi, la Commissione introduce delle «salvaguardie» che richiedono a Paesi con debito superiore al 60% e deficit sopra il 3%, un aggiustamento più veloce. La nuova proposta di riforma viene pubblicata in aprile e da qui si apre un difficile negoziato. Da un lato, per i tedeschi, questo non è abbastanza, dall’altro, molti Paesi si oppongono in quanto le salvaguardie reintroducono elementi di rigidità troppo penalizzanti. Il think-tank Bruegel, per esempio, ha calcolato che per la Francia questo comporterebbe manovre di 30 miliardi all’anno per il periodo 2025-2028.
Da aprile un tema negoziale importante diventa la modifica delle salvaguardie. Ci lavorano soprattutto spagnoli e olandesi in una inusuale collaborazione tra Paesi del nord e del sud. La loro proposta è ora sul tavolo. Se fosse accettata sarebbe un grande passo avanti. Invece di prevedere un minimo annuale per la riduzione del debito, richiede un vincolo numerico medio su un periodo potenzialmente di molti anni. Purtroppo, ad oggi, la Germania sembra irremovibile e la proposta ispano-olandese pare sia già morta. Aspettiamo di capire se, passate le elezioni, la posizione tedesca diventerà più morbida.
Se non si arrivasse ad un compromesso, si ritornerebbe alle vecchie regole. Per dare un’idea, la reintroduzione del vecchio patto di stabilità richiederebbe all’Italia un aggiustamento annuale medio per il periodo 2025-2028 di 1,4% del Pil (circa 28 miliardi), molto più pesante anche della proposta di Aprile che implica un aggiustamento dello 0,5% annuo dal 2025 al 2032.
In questo scenario ci sarebbe un serio pericolo di instabilità finanziaria poiché l’Italia molto probabilmente violerebbe una regola così restrittiva e questo potrebbe scatenare volatilità dei mercati anche perché la Bce avrebbe difficoltà ad intervenire in quanto le misure in difesa dello spread sono condizionali all’osservanza delle regole fiscali. Sia la Commissione che la Bce sanno bene che questo è il rischio e Christine Lagarde a più riprese ha esortato i governi a trovare un accordo.
In questo contesto, qualunque proposta di riforma passi, l’Italia deve costruire un piano credibile di rientro graduale del debito. Non possiamo continuare a rimandare il problema, soprattutto non nel nuovo quadro economico caratterizzato da alti tassi di interesse. Il nostro futuro si gioca soprattutto sulla qualità della politica economica. In questo senso convince poco negoziare in Europa per ottenere più spazio per gli investimenti quando abbiamo difficoltà a spendere i soldi del Pnrr o per posticipare l’anno dell’inizio del periodo di aggiustamento del debito e non persuade una manovra fatta di piccole mance, ma che non suggerisce delle chiare priorità per quest’anno e i prossimi a venire. In questo senso il problema della nuova manovra non sono i saldi, ma il suo contenuto. Con pochi margini di spesa, conta per cosa e come si spende.