22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Federico Fubini

La domanda di politica europea può prendere tante forme quante sono le culture. L’importante è che nessuno porti la sfida al punto di rottura, mentre la Germania cambia pelle


Designate le nomine di Bruxelles, digerita la sconfitta italiana, è il momento di registrare che quest’ultima è solo un dettaglio. Le novità in questo cambio di stagione politica sono anche, e forse soprattutto, altrove. Hanno votato alle Europee 32 milioni di persone in più rispetto a cinque anni fa, più o meno quante vanno alle urne per le Politiche in Italia: gli elettori capiscono che le decisioni prese a Bruxelles contano e per questo chiedono di avere voce in capitolo (un po’ meno nel nostro Paese, uno dei pochi nei quali l’affluenza è in lieve calo). Questa domanda di politica europea naturalmente può prendere tante forme quante sono le culture. Venti milioni di elettori verdi, in gran parte sotto i trent’anni, sono convinti che nessuno Stato da solo possa gestire i problemi — clima, migranti subsahariani — che loro hanno davanti. Trentasei milioni di sovranisti pensano che Bruxelles non debba metter becco su come i governi trattano i propri conti o le istituzioni democratiche. Circa 120 milioni di socialisti, i popolari o i liberali chiedono che i Paesi cooperino, mettano in comune dei poteri, riconoscano regole e istituzioni condivise e le facciano rispettare agli altri.
Ci si dovrebbe dunque aspettare che tra cinque anni il sistema abbia cercato di rispondere alle attese. Dovremmo prevedere una grande iniziativa comune di investimenti verdi, l’avvio di una politica europea sui rifugiati degna di questo nome, interventi per dissuadere Varsavia o Budapest dal manovrare i giudici e intimidire i media, una mano ferma che guidi l’Italia fuori dalla palude del debito e della crescita zero. Un segno in questo senso c’è: i leader dei 28 Stati per la prima volta hanno nominato — nota Wolfgang Münchau — una squadra di federalisti: l’Alto rappresentante spagnolo Josep Borrell, il belga Charles Michel come presidente del Consiglio europeo, la tedesca Ursula von der Leyen alla guida della Commissione Ue pensano che l’Unione debba assumere più caratteristiche di uno Stato federale.
È lecito dubitare che accadrà. Ed è lecito sospettare che l’Europa dei prossimi anni si dimostrerà una potenza lenta. Tante forze la frenano: le sfide al sistema di Polonia o Ungheria, Italia o Gran Bretagna; la riluttanza di molti governi, Parigi inclusa, a condividere i propri poteri. Ma l’elemento d’incertezza nuovo nella stagione che si apre è che questa non è più la Germania che conoscevamo. Il Paese che oggi esprime la guida della Commissione non è più la Repubblica riluttante che prendeva sempre cura di mandare a Bruxelles un personale politico tedesco un po’ opaco o di secondo piano. Questa volta è diverso: Merkel ha fatto passare alla testa della Commissione una persona direttamente riconducibile a sé. Von der Leyen è la sua delfina storica. Fra lei e la Cancelliera non c’è alcun grado di separazione, il successo o il fallimento della seconda si rifletterà sulla prima e soprattutto sul Paese di entrambe.
Voglia di esplicitare il comando? Anche questa sarebbe una novità. In Europa la Germania è sempre stata una potenza per interposta persona. Ha sempre preferito far interpretare le proprie volontà ad altri, di altri Paesi, restando in seconda fila. La Germania si comportava così quando era una nazione sicura di sé e del suo posto nel mondo. Vale dunque la pena chiedersi se sia cambiato qualcosa, perché sembrerebbe proprio di sì. Sul piano economico nel 2019 la Repubblica federale presenta il tasso di crescita più lento d’Europa dopo l’Italia. Sul piano finanziario le sue prime due banche sono così deboli da essere costantemente al centro di voci su piani d’emergenza e scalate. Sul piano industriale il Paese si presenta in ritardo alla trasformazione tecnologica dell’auto e il manifatturiero è in calo da otto degli ultimi nove mesi. La situazione rischia poi di peggiorare se davvero Donald Trump in autunno farà scattare nuovi dazi americani sulle auto europee.
Il Corriere racconta da tempo che in questa nuova stagione globale la più forte nazione d’Europa si stava infilando in un cul de sac: le tecnologie si trasformano sempre più in fretta e il mondo non è più «piatto», come quando sembrava che la ricetta tedesca del «risparmia-fabbrica-esporta» fosse la migliore. Un elemento nuovo però oggi arriva anche in politica, nota il politologo Ivan Krastev: alle Europee il partito centrista della Merkel e i suoi alleati bavaresi hanno preso solo l’11% fra coloro che hanno meno di 25 anni; in Europa il partito popolare è appena sopra il 20% fra coloro che hanno votato per la prima volta. Data l’influenza dei primi voti espressi sulle scelte nel resto della vita, i cristiano-democratici tedeschi e i popolari europei hanno di fronte a sé il rischio di un declino secolare. La Germania e il suo sistema politico non sono più così sicuri di sé da poter guidare da dietro, dissimulandosi. Per ora non vogliono più neanche «germanizzare» gli altri Paesi, farli diventare più simili a sé sul piano politico (i Paesi dell’Est Europa) o economico (il Sud Europa). Nelle parole di Krastev, a cui si deve questa intuizione, «la Germania oggi non è una potenza trasformatrice, è una potenza conservatrice che vede nell’Europa il proprio cuscinetto protettivo».
Nel mondo del dualismo fra Stati Uniti e Cina, frammentato delle guerre commerciali e della sfida tecnologica, Merkel capisce che il suo Paese deve rinnovarsi. Deve passare attraverso un ripiegamento per ripensarsi. Nel frattempo non vuole imporre altro all’Europa se non una pace, anche una stasi, che le dia il tempo necessario. Oggi la Germania è per sopire e troncare, non per imporre agli altri ciò che secondo lei sarebbe nell’interesse di tutti, cioè il proprio modello. Non è a favore di salti in avanti dell’integrazione europea che rischiano di creare troppi contraccolpi. Prendere direttamente in mano il bastone del comando con Ursula vor der Leyen serve a questo: limitare attraverso l’Europa danni che le guerre commerciali e tecnologiche globali oggi possono infliggere a un Paese in transizione politica ed economica.
I segni di questa ricerca di pax europaea sono ovunque. Il semi-dittatore ungherese Viktor Orbán è riuscito a far sì che uno dei suoi fosse eletto vicepresidente del Parlamento a Strasburgo. Persino sulla strampalata politica economica dell’Italia si è deciso per ora di non affondare i colpi. L’importante è che nessuno porti la sfida al punto di rottura, mentre la Germania cambia pelle. Se poi sarà una delusione cocente per i 32 milioni di europei in più convinti che il loro voto contasse, lo si vedrà tra cinque anni.

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