Fonte: Sole 24 Ore
di Giuseppe Chiellino
La Commissione ha suggerito modelli di riforme riuscite tra cui il Jobs Act: era «un pacchetto completo di riforme del mercato del lavoro, che ha combinato un effettivo allentamento delle tutele del lavoro, un aumento durata e copertura delle indennità di disoccupazione e sforzi per migliorare l’efficacia delle politiche attive del mercato del lavoro».
Perché le riforme abbiano successo, soprattutto quelle più impegnative, non basta avere bene in mente cosa si vuole cambiare e dove si vuole arrivare, ma occorre anche individuare un percorso, un metodo che consenta – magari per vie un po’ tortuose – di arrivare comunque al risultato. Perciò la Commissione europea, venerdì scorso ha presentato ai ministri delle Finanze riuniti a Berlino per l’Eurogruppo una “nota tecnica” per suggerire alcuni modelli di riforme riuscite perché erano state ben disegnate sin dal principio. L’obiettivo è stimolare il dibattito e il confronto tra gli Stati membri che dovranno attrezzarsi per poter spendere in modo efficace le ingenti risorse del Recovery fund.
«È un fattore che può fare la differenza» afferma il paper. «In particolare è importante tenere conto dell’impatto distributivo delle riforme che rafforzano la crescita complessiva. Alcune sono win-win, cioè ne beneficiano tutti, ma altre comportano compromessi». Tra le «lezioni» che arrivano dagli Stati membri, Bruxelles ne ha scelto anche una italiana, la riforma del mercato del lavoro del 2014-2015, nota in Italia come “Jobs Act”.
«Le riforme che fanno parte di un pacchetto più ampio tendono a incontrare meno resistenze, e possono essere anche più efficaci proprio perché si articolano in una serie di misure che si rafforzano a vicenda». Secondo la Commissione, l’Italia è riuscita ad adottare e ad attuare il “Jobs Act” perché era «un pacchetto completo di riforme del mercato del lavoro, che ha combinato un effettivo allentamento delle tutele del lavoro, un aumento durata e copertura delle indennità di disoccupazione e sforzi per migliorare l’efficacia delle politiche attive del mercato del lavoro». Un altro esempio di «pacchetto completo» di riforme è la cosiddetta “legge Macron”, adottata in Francia sempre del 2015, per rendere più dinamico il contesto imprenditoriale francese. Bruxelles non lo dice, ma in entrambi i casi potrebbe avere avuto un peso anche il «forte mandato politico» di cui godevano i rispettivi governi, Renzi in Italia e Macron in Francia: un fattore scontato per il successo delle riforme in generale, insieme alla distanza che separa le decisioni difficili da scadenze elettorali importanti.
Italia a parte, per il successo dei processi di riforma i tecnici della Commissione indicano al primo posto «una consultazione efficace con le parti coinvolte e una negoziazione costruttiva con i partiti di opposizione: «Un processo di consultazione efficace e inclusivo può contribuire a creare consenso per le riforme e a definire meglio gli obiettivi di lungo termine». L’esempio in questo caso è la profonda riforma del welfare attuata nel 2006 dalla Danimarca: il governo ritirò alcune misure iniziali su studenti e disoccupati, ritenute inique. L’avvertenza è di non esagerare con la concertazione per non annacquare le misure.
Un altro suggerimento è di prevedere «qualche forma di risarcimento», anche temporaneo, che attenui l’impatto sulle categorie che potrebbero essere danneggiate dalle misure e che potrebbero mettersi di traverso e ostacolare il cambiamento. C’è poi l’esempio della riforma fiscale del Portogallo, attuata per gradi tra il 2011 e il 2014, per dire che «la sequenza appropriata degli interventi e il ritmo delle riforme giocano un ruolo rilevante».
Funziona poco, invece, la pressione delle istituzioni internazionali, e la Commissione ne sa qualcosa, mentre vale molto di più lo scambio di buone pratiche e la verifica con altri partner alle prese con situazioni analoghe. Utile anche l’uso dei dati concreti per spiegare il disegno politico e rendere più accettabili le riforme e la loro attuazione. Il tutto però, deve essere accompagnato da una «comunicazione efficace supportata da analisi oggettive e basata sui fatti», come ha fatto l’Estonia per migliorare la produttività basandosi sugli studi della banca centrale.