Fonte: Corriere della Sera
di Giovanni Bianconi
Bocciata una delle riforme-simbolo del governo Conte 1 a maggioranza Lega-Cinque stelle. Per i giudici gli effetti sono «irragionevoli e irrazionali»
Era una delle norme-bandiera del primo decreto sicurezza, sulla quale alcuni sindaci avevano sfidato l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, annunciando l’obiezione di coscienza: continueremo a iscrivere all’anagrafe comunale gli stranieri richiedenti asilo nonostante il divieto previsto dalla legge, aveva promesso il primo cittadino di Palermo Leoluca Orlando insieme ad altri suoi colleghi, più o meno famosi. Adesso quella disposizione è stata dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale, che ha cancellato alcune righe dell’articolo 13 del «Decreto Salvini» dagli effetti «irragionevoli» e «intrinsecamente irrazionali».
Una sentenza dall’evidente significato politico, di cui i giudici della Consulta hanno anticipato il contenuto prima ancora delle motivazioni, che saranno scritte e rese note nelle prossime settimane. La Corte ha riscontrato la violazione dell’articolo 3 della Costituzione, quello che stabilisce la parità dei cittadini davanti alla legge,«senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione» o altro genere.
Il verdetto va a incidere su una delle riforme-simbolo del governo Conte 1 a maggioranza Lega-Cinque stelle, che il Conte 2 (sostenuto da Pd e Cinque stelle) dovrebbe modificare secondo programma. E secondo i rilievi indicati dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che il 4 ottobre 2018 aveva accompagnato la firma del decreto a una lettera indirizzata al premier: «Avverto l’obbligo di sottolineare che, in materia, restano fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato, pur se non espressamente richiamati nel testo normativo».
Nella bozza di riforma che il gruppo di lavoro istituito dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese sta faticosamente mettendo a punto, l’inserimento degli aspiranti profughi nei registri dell’anagrafe viene reintrodotto, ma la Corte è arrivata prima.
Alla Consulta si erano rivolti i tribunali di Milano (spalleggiato dal Comune guidato dal sindaco Giuseppe Sala), Ancona e Ferrara, contestando sia la forma del provvedimento (un decreto che modificava ben 28 leggi su materie molto diverse tra loro, perciò considerato abusivo), sia la sostanza: la mancata iscrizione all’anagrafe, impedendo ai richiedenti asilo di usufruire di alcuni diritti e servizi essenziali (il rilascio della patente, per dirne uno) si traduce in una discriminazione non solo fra italiani e stranieri, ma anche tra gli stessi stranieri. «Una disparità di trattamento che incide sull’obbligo di accoglienza del rifugiato», ha spiegato durante l’udienza Valerio Onida, ex presidente della Consulta, che da avvocato ha perorato la causa di un richiedente asilo.
La Corte non ha accolto i rilievi sulla forma del decreto, ritenendola legittima, bensì quelli sulla sostanza, bocciandone il contenuto. Per due motivi fondamentali. Il primo è che la mancata registrazione all’anagrafe produce una «irragionevole disparità di trattamento che rende ingiustificatamente più difficile ai richiedenti asilo l’accesso ai servizi che siano anche ad essi garantiti»; non essere riconosciuti come residenti sul territorio impone una serie di limitazioni e complicazioni nella vita quotidiana degli stranieri che aspettano di sapere se saranno accolti come rifugiati, senza che ciò sia bilanciato dalla tutela di validi interessi contrapposti.
L’altra ragione della bocciatura riguarda i motivi stessi per cui la riforma fu voluta e approvata da governo e Parlamento, e cioè accrescere il livello di sicurezza del Paese. Al contrario, hanno stabilito i giudici costituzionali, «la norma censurata non agevola il perseguimento delle finalità di controllo del territorio dichiarate dal decreto sicurezza». Come sostenuto dal legale del Comune di Milano, «le lacune nel quadro anagrafico sono pericolose» perché fissare la residenza delle persone è anche un modo per renderne più agevole la sorveglianza. L’avvocato dello Stato aveva sostenuto, a difesa del decreto, che non c’erano intenti discriminatori, ma solo la volontà di razionalizzare la burocrazia comunale in attesa che il profugo avesse una situazione certa, anche riguardo al luogo di dimora. Ma non ha convinto la Corte.