20 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Luigi Ferrarella

Il cosiddetto decreto-sicurezza del ministro Salvini tira via un altro tabù nella corsa a precipizio all’indiretta incrinatura della presunzione di non colpevolezza sino a sentenza definitiva


I diritti sono come le ciliegie: uno tira l’altro. Ma vale anche il contrario: nel senso che uno, appena lo tiri via, ne tira via un altro. Oggi di certo per gli stranieri, nelle loro richieste di asilo; domani magari per gli italiani, come ad esempio già si profila in talune proposte legislative che iniziano a familiarizzare con l’idea di sacrificare garanzie per arginare le prescrizioni.
Una volta che già la legge Orlando-Minniti nel 2017 aveva tolto ai richiedenti asilo il grado di giudizio d’Appello contro i rigetti dell’autorità amministrativa, adesso il cosiddetto decreto-sicurezza del ministro Salvini tira via un altro tabù nella corsa a precipizio all’indiretta incrinatura della presunzione di non colpevolezza sino a sentenza definitiva. Per i migranti richiedenti asilo che dovessero essere intanto sottoposti a un procedimento penale per una delle ampliate ipotesi di reato che in caso di condanna definitiva comporterebbero il diniego della protezione internazionale, la loro domanda verrà esaminata in via accelerata dall’autorità amministrativa: ma, in caso di rigetto, lo straniero — pur senza essere ancora stato riconosciuto responsabile di quel reato da una sentenza definitiva, e persino magari senza essere stato neanche rinviato a giudizio — potrà essere espulso subito nel Paese dal quale sentiva minacciata la propria vita o libertà, addirittura prima di poter vedere deciso il proprio ricorso al Tribunale civile contro il rigetto della protezione. Non ci vuole un genio per intuire che, se lo straniero viene rispedito dall’altra parte del mondo, gli diventa impossibile curare con un avvocato il ricorso, nemmeno è più garantita l’utilità della futura sentenza, e diventa un bluff l’effettività della tutela alla quale era finalizzata la possibilità (a quel punto solo teorica) di ricorrere. Si può fare? No, risponderà la giurisprudenza comunitaria che lo ha già detto nel 2007 e ridetto nella sentenza C-181/16 del 19 giugno 2018. Ma poco importa al legislatore pago di iniettare, granellino dopo granellino, la sabbia di singole aguzze norme nel complessivo delicato ingranaggio dei diritti.

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