Il braccio di ferro in Ucraina spinge a sottovalutare l’importanza delle leadership
Nell’attesa, forse vana, dello scacco matto (una irresistibile controffensiva ucraina, una ripresa in grande stile dell’avanzata russa), constatiamo almeno che il conflitto in Ucraina ha due caratteristiche. La prima è di essere una «guerra costituente»: dai suoi esiti, plausibilmente, dipenderanno in larga misura l’ordine (chi vi eserciterà l’egemonia?) che si instaurerà nel continente europeo nei prossimi anni nonché, più in generale, gli equilibri globali (una vittoria o, per lo meno, una non-sconfitta russa, avvantaggerebbe l’alleanza cino-russa anche in Asia e in tanti altri luoghi). La seconda caratteristica è di essere un test sugli atteggiamenti degli europei: a causa della guerra, europei filo e anti-occidentali sono in grado di riconoscersi e di contarsi. Possiamo ora «pesare», mettere sui due piatti della bilancia, rispettivamente, le preferenze per l’ordine occidentale, i suoi principi, le sue regole, e le preferenze per l’ordine autocratico, i suoi principi, le sue regole. E stabilire quale dei due piatti sia più pesante dell’altro. Due opposte tesi si confrontano e lo fanno da molto prima che iniziasse l’invasione russa dell’Ucraina.
Per la prima tesi, la decadenza occidentale è inevitabile. Secondo questo orientamento, il declino della potenza del Paese-leader dell’Occidente, gli Stati Uniti, non potrà essere arrestato. Il punto essenziale, soprattutto, per chi la pensa così, è che gli occidentali, o larga parte di essi, non credono più nel valore della propria civiltà. Non sono disposti a difenderla. Come ha detto una volta Putin, il tempo della società liberale è ormai finito. Il futuro appartiene alle autocrazie. Democrazia liberale e società aperta non lo controllano più. Sono i residui di una civiltà vecchia, morente. Xi Jinping ha espresso spesso idee simili. Gli autocrati di Pechino e di Mosca non dubitano della loro superiorità, del fatto che sconfiggeranno l’Occidente e se ne spartiranno le spoglie. È una tesi diffusa anche qui da noi, benché alcuni di coloro che la condividono se ne rallegrino e altri se ne dolgano.
La seconda tesi è quella di chi continua a scommettere sulla forza e la vitalità delle democrazie occidentali. Nonostante i tanti acciacchi e al netto di tutti gli errori, le democrazie hanno un insieme di «virtù» che mancano alle autocrazie. Diffondono libertà, benessere, diritti di cittadinanza. Offrono a chi ne fa parte un modo di vita migliore di quello che sono in grado di offrire le autocrazie. Inoltre, anche se possono sembrare fragili (e aperte alle influenze maligne delle autocrazie), e divise, spesso ferocemente divise, al loro interno, sono in grado di mobilitare risorse umane e materiali, suscitare energie, che solo le società libere possiedono. Persino il confronto con la temibilissima Cina, nel lungo periodo, secondo i sostenitori di questa tesi, dovrebbe risolversi a nostro vantaggio. Democrazia e capitalismo di mercato sconfiggeranno autocrazia e capitalismo politico, controllato e guidato dallo Stato (nel caso della Cina, dal partito-Stato). Anche perché, per quanto l’immagine delle democrazie occidentali possa essere oggi appannata, i «beni» di cui dispongono, il loro stile di vita, restano i più attraenti, corrispondono alle aspirazioni di tante persone che vivono sotto cieli autocratici in ogni angolo del mondo.
Le due opposte tesi hanno qualcosa in comune, condividono una concezione determinista della storia. Come se essa fosse dettata e dominata da forze inesorabili che trascinano gli esseri umani verso conclusioni già scritte in anticipo (la vittoria delle autocrazie per gli uni, delle democrazie per gli altri). Forze che prescindono dalla volontà e dalle scelte degli esseri umani e che si impongono ad essi. Aggrapparsi a concezioni deterministe della storia è un comprensibile errore. Serve a tenere sotto controllo l’ansia per il futuro, a illudersi di sconfiggere l’incertezza che domina le vite di tutti. Se non che la storia non funziona così. È condizionata, plasmata, dalle scelte, spesso frutti di errori di valutazione, pregiudizi, eccetera, di migliaia, di milioni di individui. E dagli esiti, imprevedibili, delle loro reciproche interazioni. Inoltre, è soggetta al caso, a fattori contingenti, a eventi per lo più inaspettati che avvengono ma che avrebbero potuto benissimo non verificarsi. Nessuno, ma proprio nessuno, né a Mosca né in Occidente, aveva previsto, prima dell’invasione, che gli ucraini fossero capaci di dare vita a una così formidabile resistenza. Chi pensa che tale resistenza sia solo il frutto dell’assistenza occidentale dovrebbe astenersi dal giudicare le faccende umane. È una attività che non fa per lui. Eventi imprevisti, inaspettati, ritenuti improbabili prima che si verifichino, incidono sul corso della storia e smentiscono regolarmente gli scenari, le anticipazioni del futuro, che fabbrichiamo (e non possiamo evitare di fabbricare) nel tentativo di disporre di bussole, di mezzi di orientamento. Anche il braccio di ferro fra democrazie e autocrazie è condizionato dall’incertezza, dalla possibilità di eventi inaspettati che possono fare la differenza, fare pendere la bilancia da una parte o dall’altra. Come tutte le guerre anche quella in Ucraina è, nei suoi possibili sbocchi, imprevedibile. Una sola cosa prevedibile lo è. Gli esiti della guerra — che saranno decisi dal modo in cui si intrecceranno ciò che accadrà sui campi di battaglia e ciò che accadrà nei tavoli politici (della politica internazionale) — avranno ripercussioni ovunque, in Europa e nel resto del mondo. Non sarà l’unica partita che decreterà vincitori e vinti nella competizione fra il campo occidentale e i campi avversi, ma avrà comunque un grande peso sull’andamento successivo di quella competizione.
In ogni caso, eventi casuali e inaspettati a parte, senza sottovalutare l’importanza della leadership (le qualità e il carattere dei governanti), nelle rivalità fra potenze — con annessi modelli di civiltà — , sono in vantaggio quelle ritenute degne di essere difese da chi ne fa parte.
È comunque sempre istruttiva la storiella, tante volte narrata, del messaggero a cavallo inviato dal re per chiedere rinforzi alla vigilia di una battaglia decisiva. Nel tragitto, il cavallo del messaggero perde un ferro, si azzoppa e la sua corsa si arresta. I rinforzi non arrivano in tempo. Il re viene sconfitto in battaglia e perde il regno. La storia, in quella parte del mondo, è modificata per sempre. Un monito per chi crede di sapere in anticipo come andrà a finire.