19 Settembre 2024

ESTERI

Fonte: La Repubblica

di Giampaolo Cadalanu

Con i militari che avanzano da Est nella capitale del Califfato, ma si combatte ancora

Al risveglio, con la luce del sole, anche l’incubo dell’Isis smette di far paura. Incredula, scossa, affannata, la gente di Mosul si affretta verso le Humvee blindate della Golden Division irachena e dà solo uno sguardo distratto agli uomini che ieri temeva. I corpi di due jihadisti in mimetica e scarponi giacciono abbandonati nel fango. Gli orchi che minacciavano e tormentavano adesso sono solo miseri resti, più che rabbia ispirano pietà. “Uno di loro l’ho ucciso io”, racconta Abbas, soldato delle truppe scelte: “Sono stato fortunato, perché mi aveva scambiato per uno di loro. Temevo avesse una cintura esplosiva, ma non era così, Dio mi ha protetto”. Gli integralisti uccisi in quest’area, dice il maggiore Zia Thamer, sono 27. Molti di loro erano foreign fighters: dieci azeri, parecchi “cinesi”, o comunque dai tratti asiatici.
Viaggiando al seguito dei militari iracheni dalla frazione di Gogjali verso il centro di Mosul, si incontrano i loro fuoristrada fermi in uno spiazzo sterrato, sotto la protezione di un enorme carro armato Abrams. I soldati spingono con gesti bruschi un uomo in dishdasha e ciabatte su un pickup Toyota. Ha le mani legate, la barba lunga. Un soldato gli tira sul volto la kefiah a quadretti rossi, poi un ufficiale si avvicina e gli sussurra qualcosa. Sembra che suggerisca al prigioniero di sparire, perché nessuno gli faccia del male. E l’uomo dell’Isis obbedisce, si gira verso un angolo del bagagliaio, quasi a nascondersi dopo aver scoperto che la scorciatoia per il Paradiso indicata da Abubakr al Baghdadi non era quella giusta. Il Califfo potrebbe essere ancora a Mosul, dicono fonti del governo curdo. Per quanto improbabile, sarebbe un segno che questa è la battaglia finale per lo Stato Islamico.
Il sole del nord Iraq ha spazzato via anche le incertezze della popolazione, che saluta, abbraccia i militari, fa con le dita il segno di vittoria, li accoglie gridando: “Viva l’Esercito!” o “Dio vi benedica”, oppure con le maledizioni: “Daesh vada all’inferno!”. Sull’ingresso di molte case campeggia una specie di “zeta” tracciata con vernice spray: indica che quella casa è ancora abitata, che la famiglia non è fuggita, e quindi avverte gli uomini di Daesh che non devono entrare. Ma oggi poco importa, se in qualche modo gli integralisti avevano cercato di inserirsi in città con un accenno di rispetto.
L’ingresso in città ricorda le foto della liberazione di Parigi dai nazisti, con meno fiori, meno bottiglie e più veli, ma con la stessa gioia. “Dove hai lasciato la barba?”, grida ridendo il maggiore Thamer a uno spilungone che arranca con la bambina per mano, trascinando una enorme borsa di plastica. L’uomo non rallenta, ma sorride: “È finita nello scarico del bagno”.
Tutti corrono verso i liberatori, con i pochi averi raccolti in buste, valigie, carriole. “Come morti, eravamo come morti”, dice una donna con l’hijab nero, senza fermarsi. Ha in mano un thermos per il caffè, accanto a lei un bambino regge una coperta rossa piegata malamente in un fagotto più grande di lui. Solo Umm Yasil, cinquantenne ex direttrice scolastica, il figlioletto per mano, trova il tempo per raccontare: “Gli uomini di Daesh mi hanno chiesto di occuparmi della loro madrassa. Ho detto di no. Ma non mi hanno punito”. È andata peggio al nipote Mahmud, che ha passato tre mesi nel carcere dell’Isis perché il padrone del negozio dove lavorava lo ha denunciato ai fondamentalisti. La sua colpa? Era stato sorpreso a fumare.
Nessuno rinuncia alle sue ricchezze: qualcuno si affianca alla carovana degli sfollati portando due vacche, riottose a seguire la strada degli esseri umani, c’è chi ha un asino e chi tenta di non far dispendere greggi di pecore dal vello nero. I bambini sono tantissimi, camminano veloci, disciplinati, accanto ai genitori, orgogliosi di avere un compito importante come reggere il bastone con lo strofinaccio trasformato in bandiera bianca.
Chi non può camminare, ricorre a un nipote che spinge un carretto di fortuna. Molte donne sono coperte dal niqab, il velo integrale che lascia scoperti solo gli occhi. Anche così, una mamma vuol dire la sua: “Mio figlio? L’ho tenuto in casa. Non l’ho mandato a scuola perché non volevo che imparasse il loro Islam. Le persone buone non hanno bisogno di Daesh”. Aggiunge il marito: “Non volevo che il bambino andasse alla madrassa perché sapevo che ci sarebbe stata una guerra, e l’avrebbero preso come scudo umano”. Fateh Ahmed, sessantenne dalla barba bianca, è meno critico: “Gli iracheni sono buona gente. Non so perché sia successo questo, ma è il volere di Dio, è lui che ha scritto il nostro destino, noi dobbiamo solo accettarlo”.
Ogni tanto una raffica vicina o un’esplosione sorda ricordano che la liberazione della città è appena cominciata. Gli uomini della Golden Division sono ottimisti: “Mosul sarà libera presto”, dice il maggiore Salam, aggiungendo che l’avanzata nei quartieri orientali ha strappato allo Stato Islamico almeno settemila persone. In tutto, sono almeno ventimila gli sfollati dalla città. Ma è solo l’inizio. Al di là del Tigri almeno un milione di civili attende l’arrivo delle forze irachene. Chi può, lascerà la città appena possibile, ma una gran parte è destinata a diventare ostaggio degli uomini del Califfato, da utilizzare come ostacolo per ogni azione militare. La scelta di usare scudi umani ha fatto gettare la maschera all’Isis, perché nega l’essenza stessa della comunità, dirigendo la ferocia verso lo stesso popolo che doveva farne parte. Nella follia fanatica anche la brutalità diventa strumento politico, due anni e mezzo di dominio spietato l’hanno fatto capire bene alla popolazione di Mosul.
Lo dice anche Khaled, operaio di 37 anni, che si avvicina urlando ai giornalisti. Ci tiene a spiegare che è stato un incubo, perché gli uomini di Daesh sono bruschi, arroganti, prepotenti. “Alla fine, tutto ciò che avrei desiderato era solo un po’ di gentilezza”.

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