Haftar e i suoi generali sono preoccupati dalla rabbia della gente. La casa del sindaco è stata data alle fiamme. Non c’è famiglia che non abbia avuto morti
Per la prima volta dall’inizio della tragedia i soldati di Khalifa Haftar imbracciano i fucili per le strade. I giornalisti hanno l’ordine di andarsene, non pochi sono stati trattenuti per ore e ore. C’è meno traffico ai posti di blocco per il semplice fatto che le auto civili vengono fermate ancora prima di entrare in città. Il centro nelle ore serali si fa vuoto e spettrale come neppure era subito dopo l’esplosione della bomba d’acqua prima dell’alba del 10 settembre.
A Derna ormai sulla desolazione affranta della tragedia umanitaria si sta avvitando l’ennesima crisi politica che rimarca le profonde divisioni politiche e tribali che da sempre ammorbano le speranze di un futuro di unità nazionale al segno della pacificazione interna.
I motivi sono evidenti: la grande manifestazione di protesta lunedì sera di fronte alle volte sporche di fango della moschea al Sabah in centro città ha spaventato e preoccupato Haftar e i suoi generali.<
Secondo i locali oltre duemila persone si sono lo incontrate scandendo slogan contro il sindaco, Abdulmenam al-Ghaithi, e per chiedere le dimissioni del presidente del parlamento nell’est del Paese, Aghilah Saleh. La casa di al-Ghaithi è stata data alle fiamme. Pare siano volati slogan anche ai danni di Saddam Haftar, il primogenito del Colonnello. In poche ore gli equilibri interni della Cirenaica sono sconvolti.
«Venite a vedere i danni nella nostra casa. Chi pagherà adesso?», ci dice tra i tanti Ali Hamad di 64 anni, che ha due nipoti morti e il garage il primo piano e le cantine devastati. Lui come tutti gli abitanti rimasti nella sua strada hanno avuto lutti e danni. E tutti hanno partecipato alle manifestazioni . «Ne faremo altre , il sindaco deve pagare per ciò che abbiamo subito», aggiunge. Non si trova famiglia che non abbia avuto morti. Motivo della rabbia resta la convinzione popolare per cui era noto addirittura dal 2008, le dighe distrutte dalle acque erano state costruite da una ditta della ex Yugoslavia nei primi anni Settanta. Ancora nel 2022 un esperto locale aveva messo in allarme sulle debolezze strutturali delle dighe. «Ma non era stato fatto assolutamente nulla. E ciò nonostante il premier del governo di Tripoli, Abdelhamid Dbeibeh, avesse stanziato milioni di dinari libici per riparare le dighe e le infrastrutture urbane. Vergogna !», ci dice Abdel Ghani Naji, un quarantenne che da pacifico cittadino si sta trasformando in militante della protesta.
Viene spontaneo chiedersi per quanto tempo ancora le milizie di Tripoli riusciranno a lavorare spalla a spalla con quelle bengasine. La tensione si taglia col coltello. Le squadre della protezione civile italiana non sono uscite per molte ore a causa dell’allarme. Haftar è come preso dalla necessità impellente di marcare il territorio.
Ieri mattina siamo tornati a girare a piedi le aree più devastate. «La nostra famiglia ha perso 18 persone. Abbiamo necessità di contattare i sopravvissuti e i cugini all’estero. Ma adesso il regime per impedire proteste taglia la linee telefoniche. Di fatto aggiunge offesa al danno. Ci trattano come animali, senza nessun rispetto. Pur di garantire la loro sicurezza e controllare le piazze sono pronti a creare ulteriori difficoltà alla povera gente che soffre», esclama Fathi di 71 anni. I suoi nipoti che sono sopravvissuti stanno organizzando nuove proteste. E sul lungomare sono già comparse scritte nere di minaccia: «11 settembre: un giorno che Derna non dimenticherà mai». I comandi di Haftar stanno allestendo nuovi posti di blocco anche sul lungomare. Venerdì prossimo, dopo la preghiera delle moschee, potrebbero scattare nuove proteste.