Fonte: Corriere della Sera
Nella Ue la maggiore integrazione non è un obbligo e dipende invece da più fattori
di Enzo Moavero Milanesi
Oggi si terrà un Consiglio europeo particolare. Il principale tema sono alcune misure auspicate dalla Gran Bretagna; gli altri, migrazioni ed economia. Chi non segue puntualmente le vicende Ue, può meravigliarsi che quest’ultimi due temi, di forte impatto sul nostro quotidiano, non abbiano la precedenza sul primo che sembra riguardare un solo Paese. La spiegazione si ricollega alle specifiche iniziative del governo britannico: indire un referendum — dopo che se ne parlava da anni — per decidere se restare nell’Unione europea; e avanzare circostanziate richieste ai partner su aspetti, ritenuti cruciali ai fini del voto. Si è tenuto — senza eccessi, liti, clamori — un intenso negoziato, che ha definito gli atti da adottare. Singolare è la loro stessa natura (una decisione del Consiglio europeo, miscelata con dichiarazioni anche della Commissione europea), allo scopo di interpretare certe disposizioni dei Trattati base, evitando di modificarle; ben coscienti che emendare i Trattati è difficile. Sono atti che vanno compresi a fondo, perché travalicano il mero interesse dello Stato protagonista e questo spiega la buona riuscita dell’operazione sin qui condotta dai britannici.
I punti specifici sono, in estrema sintesi: (1) garantire agli Stati «non-euro» di restare, realmente, fuori dal perimetro d’incidenza delle regole che gli Stati «euro» adottano; (2) valorizzare al meglio il mercato unico europeo, volano di competitività e crescita, semplificandone le normative; (3) rafforzare la «sussidiarietà» Ue (secondo la quale: l’Unione non interviene, quando gli obiettivi di una sua azione possono essere raggiunti meglio al livello dei Paesi membri): le proposte legislative Ue vanno ritirate, se il 55% dei Parlamenti nazionali esprime un parere contrario; (4) permettere a uno Stato di graduare, lungo un periodo massimo di quattro anni, il pieno accesso al locale welfare, dei lavoratori di altri Paesi Ue, neo-residenti. Come ovvio, non mancano le critiche ad alcune proposte.
Per esempio, si teme che uno Stato che non aderisce all’euro e ai suoi obblighi, possa opporsi a normative dell’Eurozona; un’ipotesi non confortata dalla bozza di decisione che, semmai, precisa la separazione fra Paesi «euro» e «non-euro», a garanzia della rispettiva — e già sancita — autonomia. Si dissente sul nuovo strumento a salvaguardia della «sussidiarietà», trascurandone la ratio di democrazia in un’Unione, composta da Stati sovrani, dotati di Parlamenti, considerati dai cittadini i più vicini a loro; mi sembra naturale il ritiro di iniziative Ue contro le quali si pronuncia (con appositi pareri, motivati e resi pubblici) la maggioranza dei parlamenti nazionali. Il punto — sensibile — dell’accesso al welfare, confligge con alcune libertà fondamentali Ue (circolazione delle persone, diritto di stabilirsi in altri Stati): tuttavia, non essendo state armonizzate a livello europeo le norme per assistenza sanitaria e sussidi ai disoccupati, i Paesi con sistemi generosi rischiano seri problemi per l’equilibrio economico di tali sistemi, nonché dei loro conti pubblici; la deroga, quindi, privilegia l’interesse generale a bilanci statali sani, rispetto a quello individuale dei lavoratori Ue residenti, da meno di quattro anni, in un Paese diverso da quello di origine.
Come si vede, al di là dei contingenti auspici sull’esito del referendum britannico, la decisione del Consiglio europeo si applicherebbe a tutti gli Stati che si trovano nelle situazioni delineate. Certamente, potrebbero esserci ricorsi alla Corte di Giustizia Ue, che ha l’ultima parola nell’interpretare i Trattati (ad esempio, azioni di cittadini Ue non ammessi subito al welfare del Paese in cui lavorano e risiedono): se accade, si vedrà il suo giudizio.
Del resto, nel sistema Ue vi sono numerose deroghe e forme di flessibilità. Al riguardo — ed è significativo — la medesima decisione in discussione sottolinea che il solenne intento fondante di costruire «un’Unione sempre più stretta», consente distinte formule d’integrazione fra i Paesi Ue. In effetti, già da tempo, solo alcuni Stati adottano l’euro o fanno parte del «sistema Schengen» per la libera circolazione delle persone; non tutti aderiscono alla piena applicazione della Carta dei diritti fondamentali e delle misure per la sicurezza, la difesa e la giustizia. Si consolida così un assetto Ue, oramai, caratterizzato da geometrie variabili, molto asimmetriche.
Si comprende, allora, meglio un profilo nodale. Nell’Ue, la maggiore integrazione non è un obbligo, ma dipende da due fattori: la volontà di uno Stato di abdicare a porzioni di sovranità nazionale, per condividerle con altri Paesi; e la fiducia reciproca fra i partner, circa l’osservanza degli impegni presi. Entrambi i fattori sono garantiti dalle regole comuni, interpretabili. Lo esemplifica il dibattito suscitato dalla Gran Bretagna: ogni Stato è libero di aderire ai livelli più avanzati d’integrazione; se non vuole, se ci ripensa, deve assumersi le sue responsabilità. Bisticci e vittimismi non giovano affatto. L’esperienza britannica mostra che, se sono motivate e non sono contrarie a norme base dell’Unione, molte richieste vengono accolte. Dunque, la scelta spetta ai governi degli Stati: devono saper elaborare tesi sostenibili, convincere gli altri Paesi e se l’esito non soddisfa, devono risponderne di fronte ai cittadini e alla storia.