22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Paolo Mieli

Dopo mesi di manovre solo in parte alla luce del sole e il disarcionamento di Conte, adesso gli schieramenti avranno il tempo per trovare la compattezza


La nascita del governo presieduto da Mario Draghi ha già avuto conseguenze non irrilevanti sul sistema politico italiano. Il centrodestra ha trovato la via per restare unito nonostante due partiti (Lega e FI) siano entrati in maggioranza, mentre uno (Fratelli d’Italia) è rimasto all’opposizione. E, almeno per il momento, l’alleanza regge. Il centrosinistra, nelle rilevazioni demoscopiche, è addirittura cresciuto come conseguenza della designazione di Giuseppe Conte alla guida del M5S. È vero che nei sondaggi il campo progressista ha conosciuto l’espansione in virtù esclusiva di un balzo in avanti del movimento fondato da Beppe Grillo (mentre il partito di Nicola Zingaretti ha registrato una notevole flessione). Ma l’insieme è aumentato di due o tre punti e adesso il partito grillino insidia il primato di quello guidato da Matteo Salvini. Laddove, a conclusione dell’esperienza di governo del 2018-2019, la Lega aveva doppiato il M5S sottraendogli la metà dell’elettorato. E non è che l’inizio. D’ora in poi destra e sinistra dovranno, se vorranno, contendersi il centro popolato da formazioni (quelle di Matteo Renzi, di Carlo Calenda, di Emma Bonino) tra loro non concordi ma dimostratesi nella recente crisi di governo dinamiche. E, in aggiunta, ad esse collocheremmo anche Forza Italia che ha ritrovato un imprevedibile ruolo di un qualche rilievo.
Apparentemente il partito di Silvio Berlusconi fa parte del centrodestra e ogni discorso potrebbe chiudersi qui. In realtà Forza Italia è rimasta nell’area a cui venticinque anni fa diede vita forse anche per qualche confusione nel fronte opposto. Dicevano M5S e Pd nell’estate del 2019 di aver messo in piedi un governo per l’Europa «nel nome di Ursula» avendo trovato l’intesa, appunto, dopo aver votato in luglio per l’elezione di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione europea. Ma non spiegavano come mai non avessero coinvolto nell’operazione Forza Italia la formazione nostrana che fa parte dei popolari europei a cui la von der Leyen appartiene. Strano, no? Fu subito evidente che M5S e Pd, pur dichiaratisi convinti «ursuliani», non volevano aver niente a che fare con Berlusconi. La contraddizione si è ripresentata qualche settimana fa quando si è giunti all’ora del giudizio per il Conte 2. Nel momento in cui Renzi legittimamente si chiamava fuori, i contiani — sempre in nome dell’Europa — avrebbero dovuto rivolgersi apertamente a Berlusconi, scusarsi per la dimenticanza dell’estate ’19 e chiedergli di unirsi a loro. Non è detto che la risposta sarebbe stata un sì ma il gesto avrebbe avuto una sua importanza. Invece hanno preferito andargli a rubacchiare qualche senatore sotto la guida esperta di parlamentari che da quel mondo venivano: Bruno Tabacci e Clemente Mastella. Risultato: una brutta figura dopo la quale si ritrovano al governo assieme a Berlusconi (e perdipiù a Salvini). Ma è presto per parlarne.
Verrà il tempo in cui sarà possibile ricostruire la storia del disarcionamento di Conte e della nascita del governo Draghi. Una storia con alcuni protagonisti che si sono mossi alla luce del sole (Renzi, le destre, i centristi) e altri che hanno dato una mano dall’interno dello schieramento votato alla sconfitta. Qualcuno tra i perdenti mormora — anche in pubblico — parole come «complotto», «ordito», «congiura». Ma regolarmente questo qualcuno si ritrae al momento di indicare i nomi dei cospiratori che avrebbero agito in campo contiano. Anche perché probabilmente dispone solo di prove indiziarie o induttive. È un fatto però che per alcune settimane, oltre un mese, Renzi nelle sue contestazioni a Conte fu sostenuto da un discreto consenso dall’interno sia del Pd che del M5S. E quel consenso diede un contributo fondamentale a che tutto andasse in frantumi. Su queste macerie è nato il governo Draghi.
Gustavo Zagrebelsky in un’intervista a Silvia Truzzi per Il Fatto Quotidianoha acutamente osservato che «la forza di un governo dipende dalla coesione», in assenza della quale un esecutivo «nasce tarlato fin dall’inizio». Giustissimo. L’ex presidente della Corte Costituzionale ha però poi definito «piuttosto stupefacente» che nella formazione dell’attuale maggioranza «nessuno abbia detto a qualcuno, in nome della coesione: no, tu no». E qui non si capisce chi «in nome della coesione» avrebbe dovuto dire «no, tu no». Solo chi dispone di una maggioranza sia alla Camera che al Senato ha la facoltà di dire «no, tu no». Se non si ha quella maggioranza, o si va ad elezioni oppure la parola d’ordine diventa «accomodati, prego e grazie infinite per esserti unito a noi». Una terza opzione non è data. Neppure al capo dello Stato.
Dopodiché adesso c’è tutto il tempo per trovare — a destra, al centro e a sinistra — la coesione di cui saggiamente parla Zagrebelsky. E per sottoporla, quando sarà, al giudizio degli elettori così da farsi da loro assegnare un insieme di parlamentari congruo a governare il Paese. In questo modo, sulla base di un congruo numero di deputati e senatori conquistato nelle urne, si potrà dire a quelli del fronte avverso «no, tu no». O, in assenza di consenso e coesione, sentirselo dire.

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