Il vero handicap sta nella scarsa frequentazione degli ambienti dove prende forma il discorso pubblico, dove si stabilisce ciò che si può dire e che invece non sta bene dire, dove si trasmettono regole e si apprende il modo stesso di stare nei ruoli istituzionali
Per vincere le elezioni bastano i voti, e per andare al governo basta avere vinto le elezioni. Ma fino a quel momento chi vince le elezioni e va al governo è solo una parte: rappresenta sì una maggioranza ma comunque sempre e solamente una parte del corpo elettorale. Quando arriva al governo, invece, le cose cambiano. A quel punto infatti chi ha vinto le elezioni come parte si trova a rappresentare tutto il Paese. E quindi non solo ha l’obbligo di farsi carico anche di coloro che il giorno delle elezioni hanno votato per i suoi avversari, ma direi qualcosa di più: e cioè deve sentirsi in dovere, in qualche modo, di adottare il linguaggio e la sensibilità e il bon ton socialmente accreditati. È una regola, beninteso, che nessuna legge scritta impone di osservare, ma se non lo si fa capita quello che sta capitando all’attuale governo dal primo giorno in cui si è insediato. E cioè che magari fa pure cose buone, magari rimane pure al di sopra della sufficienza, ma ogni giorno subisce sulla scena pubblico-mediatica del Paese un continuo, estenuante logorio politico che alla lunga minaccia di consumarlo.
Ma non già per effetto di una «difficoltà di comunicazione», come spesso si dice. Quella che viene definita così, mi pare, è il sintomo di qualcosa di più importante. È come se la maggior parte dei politici della destra italiana avessero fin qui vissuto in un altro Paese, un Paese dove non vigevano le convenzioni linguistico-culturali, le regole del galateo istituzionale.
Dove non vigevano neanche le regole della buona creanza discorsiva in uso nell’Italia ufficiale, e quindi i suddetti politici non avessero avuto modo di conoscere nulla di tutto questo. Oppure come se, pur conoscendolo, si facessero un punto d’onore a non tenerne conto. Da qui le frequenti battutacce, un vocabolario spessissimo improprio, la disinvolta noncuranza verso l’etichetta valoriale democratica. Da qui i migranti del ministro degli Interni che da veri incoscienti con i loro viaggi avventurosi «mettono in pericolo la vita dei figli», da qui il sospetto di collusione con la mafia indirizzato sgangheratamente verso i deputati dell’opposizione. Ogni volta dando l’impressione (ciò che poi forse è quasi sempre vero) di non accorgersi neppure del peso delle parole e del modo di dirle, del loro effetto contundente.
Il fatto è, suppongo, che la destra è convinta che si tratti di convenzioni linguistiche e regole di buona creanza «democratica» niente affatto neutre bensì create dalle culture politiche a lei avverse e pertanto a uso e consumo esclusivo della sinistra e, come capita, di quegli «utili idioti» liberali che le tengono bordone. Al cui rispetto essa perciò non si sente per nulla tenuta.
Il che magari in parte sarà anche vero — intendo la presunta origine di sinistra — ma lo diventa poi interamente per una sorta di profezia che si autoavvera. Nel momento infatti in cui la destra non accetta quell’insieme di regole e convenzioni ma lo fa solo la sinistra ecco che allora esse assumono effettivamente un connotato di sinistra. Ma solo per questo, non per altro. In realtà, nel rivolgersi ad una signora di colore evitando di chiamarla King Kong, nell’usare il termine «nero» invece di «negro», nel guardarsi dal definire «ciccione» un tizio sovrappeso, nell’evitare all’indomani di un naufragio di cantare nel mezzo di una festa una canzone che parla di un annegamento, nel cercare in una qualunque discussione di non apparire un attaccabrighe di professione, in tutto questo non c’è nulla in realtà che di per sé possa dirsi «di sinistra». C’è solo un portato dei tempi, un intreccio di motivi storico-culturali, se vogliamo anche un che di conformistico e di politicamente corretto, al quale, è vero, la sinistra è sempre prontissima ad adeguarsi. Che però, nel momento in cui viene adottato in tutto il mondo di cui facciamo parte, da New York ad Atene, diviene un’etichetta espressivo-comportamentale da cui non si può prescindere.
Si può essere sì contro il proprio tempo, contro le sue idee, i suoi modi e le sue mode, contro i suoi tic e i suoi tabù, ma solo se si fa il pensatore, il poeta, il professore universitario: non se si governa un Paese di qualche decina di milioni di abitanti. In questo caso è necessario adeguare il proprio linguaggio, la propria sensibilità e la propria etichetta e a quello che è l’indirizzo pubblicamente accreditato. Sarebbe bello che magari lo si sapesse fare con un pizzico d’ironia (quella in cui era maestro Mario Draghi) ma si sa che in Italia è merce rarissima, e perciò meglio lasciar perdere.
Il vero handicap nei confronti della sinistra che si trova a dover rimontare la destra che oggi ha la maggiore responsabilità di governo sta nella sua storica scarsa consuetudine con il potere. Non già con il potere politico (con cui al contrario ha avuto un rapporto intenso) ma che in questo caso vuol dire poco o nulla. Bensì con il potere socio-culturale, con i luoghi, le relazioni, i libri, da dove nasce e si afferma il modo di essere del Paese che conta, e che quindi per così dire dà la linea. Il vero handicap sta nella scarsa frequentazione degli ambienti dove prende forma il discorso pubblico, dove si stabilisce ciò che si può dire e che invece non sta bene dire, dove si trasmettono certe regole e si apprende il modo stesso di stare nei ruoli pubblici e istituzionali. Dove si può apprendere anche ad esempio, se posso dirlo, che non «sta bene» che il presidente del Consiglio nella sua veste ufficiale — e sia pure in una conferenza stampa, come è accaduto a Cutro — si lasci trascinare a discutere a tu per tu e addirittura a battibeccare con i giornalisti.
La vita politica della Repubblica avrà moltissimo da guadagnare quando la destra che oggi ha la massima responsabilità di governo (dei suoi alleati, per l’argomento di cui si sta trattando, non vale la pena neppure parlare) si convincerà che, per governare, la quantità dei suffragi è una condizione necessaria ma non sufficiente. Che l’esercizio del potere consiglia di far capolino ogni tanto nei luoghi finora abitati dagli avversari, non già nel disdegnarli, e infine che il prestigio conferito dal governo del Paese va ripagato con parole e comportamenti che sappiano esserne all’altezza.