22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Ernesto Galli della Loggia

Non si governa l’Italia se si è reticenti sul passato come la stessa Meloni invece ha fatto in una recente lettera al Corriere, quando per cavarsi d’impiccio si è richiamata a una confusa e pasticciatissima dichiarazione sul totalitarismo del Parlamento europeo

Ha ragione Antonio Polito quando sul Corriere di ieri ha visto nel risultato della consultazione elettorale in Francia una lezione per il populismo, e dunque anche per i partiti di casa nostra a cui quel termine si attaglia più o meno bene. E naturalmente soprattutto per quelli di destra: non solo perché i sondaggi continuano a darli sulla cresta dell’onda, ma anche perché evidentemente il dato clamoroso della sconfitta di Marine Le Pen riguarda loro più da vicino.
Il primo insegnamento da trarre riguarda la collocazione internazionale. Sembra venuta l’ora che Salvini e Meloni si chiedano quale reale vantaggio (legittimo, inutile aggiungere…) essi possono sperare di ottenere dal loro ormai pluriennale flirt con regimi come quello ungherese, polacco o russo.Se intendono rappresentare la maggioranza dell’elettorato italiano, credono davvero che tale elettorato possa nutrire grandi simpatie per governi clericali fino al parossismo come quello di Varsavia o per un autocrate prepotente come Orbán? Davvero credono che la maggioranza del loro elettorato sia disposta a mollare l’antico ancoraggio atlantico per correre tra le braccia di Putin, carceriere e avvelenatore dei suoi avversari politici? Ancora: che cosa mai potremmo avere da guadagnare noi italiani, mi chiedo, dal guardare con indulgente simpatia i nazisti di Alternative für Deutschland?
E che senso ha impegnarsi in tali compromettenti vicinanze solo perché tutti questi signori sono contro l’aborto, l’omosessualità e il troppo vacuo democraticismo di Bruxelles? Non è la dimostrazione tra l’altro di un’assurda subalternità politico-culturale, laddove pure agli occhi della destra italiana dovrebbe essere evidente che il muro di schede che ad ogni elezione ricaccia invariabilmente indietro la Le Pen si deve anche alla profonda diffidenza che un elettorato occidentale — pure se di destra, pure se conservatore — prova istintivamente verso l’idea che dovremmo sentirci più vicini a Budapest o a Mosca che a Madrid e a Londra?
Il secondo insegnamento che viene dalla Francia riguarda il modo di fare opposizione. E ancora una volta vale l’esempio del Rassemblement lepenista che come ogni populismo non ha fatto che alimentarsi della contrapposizione più o meno gridata e frontale, della messa sotto accusa dell’establishment in qualsiasi circostanza. Ma il responso delle urne francesi mostra che tutto ciò oggi non paga, lo ha già accennato Polito; non paga più come sembrava pagare ieri. Se è vero infatti che in tutta Europa il Covid ha significato la presa d’atto dei pericolosi squilibri creati dalle politiche economico-sociali degli ultimi trent’anni, a tutto ciò in Italia si è aggiunta l’ormai generale consapevolezza dei mali che ci portiamo appresso da più tempo ancora e che dopo un ventennio di stagnazione minacciano di strangolarci. La scuola, la giustizia, la pubblica amministrazione, il fisco, la sanità: in pratica non c’è un solo comparto della nostra vita associata e statale che non richieda interventi di risanamento vasti e incisivi, anche duri verso posizioni acquisite e interessi protetti.
Il Paese lo sente, e sente sempre più urgente il bisogno di impegnarsi in un rinascita complessiva e di lunga lena. Ha voglia e necessità di essere chiamato a traguardi importanti. Ma tutto questo significa una cosa precisa: che oggi opporsi non basta (con Draghi al governo poi!). Che questo non è più il tempo dei vaffa e dei vituperi, e neppure delle genericità, dei buoni propositi e delle vaghezze riformatrici buttate in pasto al pubblico tanto per dire qualcosa. Oggi è il tempo delle proposte concrete e dei progetti ambiziosi ma ragionati, è il tempo delle cifre e del calcolo dei tempi di attuazione. Ma quale contrasto ahimè tra una prospettiva simile e ad esempio le candidature che per le prossime elezioni cittadine la destra sta mettendo in campo contro la sempre più scialba burocrazia politica della sinistra. Davvero qualcuno pensa di convincerci, ad esempio, che artefice della resurrezione di Roma possa essere un focoso tribuno radiofonico come il finto professor Michetti, fortunato venditore di consulenze amministrative alle più varie burocrazie dell’universo ministeriale e assimilato?
Per finire, il risultato francese ripropone ancora una volta la questione che pesa come una spada di Damocle sulla destra di quel Paese come sulla nostra: la delegittimazione che promana dal loro passato. Ad ogni elezione Marine le Pen ne deve prendere atto: non si governa a Parigi se invece di riconoscersi nell’appello di De Gaulle del 18 giugno del ’40 non si smette di mostrare qualche simpatia per il maresciallo Pètain. È in sostanza lo stesso problema del fascismo per Fratelli d’Italia. Se ne faccia una ragione una leader intelligente e capace come Giorgia Meloni: non si governa l’Italia se si è reticenti su questo punto come la stessa Meloni invece ha fatto in una recente lettera al Corriere, quando per cavarsi d’impiccio si è richiamata a una confusa e pasticciatissima dichiarazione sul totalitarismo del Parlamento europeo (inaspettatamente divenuto questa volta degnissimo d’ascolto).
Qui non si tratta di aderire ad alcuna vulgata antifascista. Che cosa ha rappresentato il fascismo nella storia d’Italia, da dove esso veniva e che cosa si proponeva, se è stato o no un regime totalitario o piuttosto autoritario, se ha goduto o no del consenso degli italiani: ognuna di queste cose e molte altre ancora sono e devono restare libera materia di discussione. Ma chi vuole governare la Repubblica deve assolutamente convenire — fatto sempre salvo com’è ovvio il giudizio sulle singole persone, che è sempre altra cosa — deve assolutamente convenire, dicevo, che l’alleanza con il nazismo e le leggi razziali, l’aggressione bellica a mezzo mondo e poi Salò, hanno reso la vittoria alleata del 1945 un evento, per quanto anche pieno di dolore, per noi fortunato e positivo. Anche perché senza una tale vittoria — particolare non proprio insignificante — non esisterebbero neppure la stessa Repubblica e il suo regime democratico. Fino a quando un partito che ambisce a guidare il Paese può continuare a non esprimersi nel modo che ho detto su questo punto?

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