Le donne afghane e il summit clandestino di Tirana: riconosciamo l’apartheid di genere come crimine contro l’umanità
Come è possibile che così tante proteste di massa abbiano generato conseguenze opposte agli obiettivi che perseguivano? L’interrogativo è il cardine di un libro, Noi bruciamo. Dieci anni di rivolte senza rivoluzione (Einaudi), che racconta quanto (non) è successo dal 2010 al 2020: dall’inizio delle «primavere arabe» in Tunisia alle ultime manifestazioni a Hong Kong, quando il movimento pacifico «sii acqua» occupò due università barricandosi dentro il recinto degli atenei e si predispose all’assalto vittorioso delle forze dell’ordine di Pechino. Noi sappiamo che potremmo andare oltre. Oltre il 2020, tempo di pausa pandemica, fino ad abbracciare i cortei delle donne a Kabul contro il ritorno dei talebani (Ferragosto 2021) e quelli dei giovani iraniani contro il regime integralista islamico, in nome di Mahsa Jina Amini (autunno 2022).
L’autore – Vincent Bevins, giornalista e scrittore, inviato per molte testate tra cui Washington Post e Financial Times – attraversa tanti dei sommovimenti che anche noi ricordiamo bene: sono appena dietro l’angolo della nostra memoria. E si chiede, giustamente, perché. Perché quell’enorme desiderio di cambiare il mondo – o meglio: di rinnovare «le strutture che tengono in piedi il nostro sistema globale» – si sia infranto contro una sequenza di muri che, rispetto al 1989, non sono crollati. O, seppur diroccati in una primissima fase euforica, sono stati poi riedificati, magari più alti e invalicabili, come torri medievali in un deserto di rassegnazione e distrazione.
È stato tutto inutile se non controproducente? La speranza dichiarata di Bevins è che «un’energia simile» torni a liberarsi di nuovo e che, memori di un decennio così doloroso e inconcludente, «i rivoluzionari» abbiano imparato come si fa. Le proteste senza leader, «orizzontali», «spontanee», «autoconvocate» via web, non sembrano arrivare dritte – e neppure un po’ storte – alla meta. Prefigurano una società nuova, altra, ma non riescono a determinarne il successo.
È un passaggio critico, che interroga le democrazie liberali perché, da Hong Kong a Teheran, quelle ragazze e quei ragazzi – esprimendo l’aspirazione combattente a una civiltà che sia aperta al cambiamento – riverberano e fortificano uno spirito a noi vicino. Se ciò che definiamo Occidente non vuole andare a spegnersi, lentamente e poi magari di colpo, la percezione di questi «irregolari» deve restare accesa e attiva. Soltanto la vitalità delle periferie, fisiche e/o ideali, salverà da un letargo opaco quanti si considerano «centro». La compiacenza ci sotterrerà. Nel frattempo, chi resiste a ogni spostamento interno – i regimi – sembra avere la meglio: basta «individualizzare» il fronte delle contestazioni, secondo la vecchia formula divide et impera, per sopravvivere e rilanciare i dadi. Dopo quattro anni di interviste in dieci Paesi attraversati da tentate rivoluzioni, l’autore di Noi bruciamo confessa un classico malessere da mattina post sbornia. L’ansia di «fare qualcosa» ha stroncato troppe vite, gettandole ai lati della Storia?
Restano trincee da presidiare.
Le donne afghane, a cui è stata vietata persino la risonanza della propria voce, hanno organizzato – più o meno da sole – un summit clandestino a Tirana per costituire un board dell’opposizione. Molte erano esuli, ex deputate e attiviste, costrette alla fuga nei giorni del ritiro alleato. Ma alcune provenivano da città e province afghane: un viaggio di andata (e ritorno), tra minacce e rischi di respingimento, pur di esercitare una chiamata collettiva alla speranza. «Altrimenti – ha spiegato una di loro a The Guardian, chiedendo di non essere registrata per non violare la legge sul silenzio femminile e doverne poi pagare il prezzo a casa – avranno vinto i talebani». Noi bruciamo, con loro. Noi vinciamo, o perdiamo, insieme. E dunque, per esempio: riconosciamo che l’apartheid di genere, diffuso in Afghanistan e in Iran, è un crimine contro l’umanità.