19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Paolo Lepri

La decisione che il presidente americano Donald Trump sta per annunciare di spostare a Gerusalemme l’ambasciata degli Stati Uniti, seppure già prefigurata in passato dalla Casa Bianca, può cambiare tutto


È uno strappo, anche doloroso. Come tutti gli strappi può produrre nuove, imprevedibili lacerazioni, oppure può essere ricucito in maniera quasi invisibile. La terza possibilità è che il tessuto venga sostituito da uno più forte, in grado di resistere maggiormente all’usura del tempo. La decisione che il presidente americano Donald Trump sta per annunciare di spostare a Gerusalemme l’ambasciata degli Stati Uniti in Israele, seppure già prefigurata in passato dalla Casa Bianca, può cambiare tutto, anche in un mondo nel quale il conflitto israelo-palestinese aveva perso la sua dimensione centrale, aveva smesso di essere un punto di riferimento costante nelle relazioni tra l’Occidente e il mondo arabo, era diventato sempre meno la motivazione alla base del terrorismo islamico. È chiaro che si tratta di una scelta azzardata, perché la storia impone regole, giuste o sbagliate che siano, perché bisogna sempre tenere presente l’onda possibile delle reazioni. Ma anche perché le mosse unilaterali in un quadro di alleanze, come quello in cui l’America dovrebbe agire, sono rischiose in sé e per sè. È stata una scelta azzardata perché la tela dei rapporti transatlantici con l’Europa (che ha da sempre una posizione precisa su questo tema, anche se modulata da sensibilità diverse) è troppo importante per non prendere posizioni condivise. La politica si fa con le idee. Anche con i gesti, naturalmente, ma i gesti richiedono ancora più approfondimento delle idee.
Le voci del nostro incerto continente che non hanno nascosto la loro preoccupazione — da quella del presidente francese Emmanuel Macron a quella dell’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Federica Mogherini — esprimono concetti giusti. Hanno solo il difetto di dire soltanto che cosa non bisogna fare, ripetendo però — per quanto riguarda le iniziative da realizzare — formule che si sono rivelate inefficaci, ormai logorate dalla crescita dell’indifferenza, dall’inconsistenza politica e dall’ambiguità (Anp), dalla linea di rendere permanente lo status quo (Israele), dall’estremismo e dal fanatismo che nega la stessa esistenza dell’avversario (Hamas). Detto questo, si tratta di affermare chiaramente che la soluzione dei «due Stati» nei modi ipotizzati in questi ultimi anni (da sempre sostenuta in ogni occasione da chi crede giustamente nella necessità di proseguire il processo di pace) è una formula che la realtà dei fatti ha reso inconsistente. Bisogna riconoscerlo e trarne le conseguenze. Il piano dei «due Stati» — affascinante sulla carta, ma non in quella geografica — poteva essere uno scenario praticabile all’epoca dei «no» di Arafat a Bill Clinton, prima che le esigenze di sicurezza di Israele si scontrassero sempre di più con l’instabilità aggressiva dei suoi vicini, con il gioco pericoloso compiuto dai principali attori del Medio Oriente (Iran in primo luogo) con l’espandersi della presenza ebraica — al di fuori delle risoluzioni internazionali — nei territori occupati nel 1967.
Riusciranno le onde anomale provocate dallo strappo di Trump a provocare un chiarimento, costringendo tutti — sulla scia dell’emergenza — a lavorare su nuove proposte? Non è escluso. Lo scenario più terribile, che non vogliamo nemmeno immaginare, sarebbe invece quello di sfruttare un eventuale aggravamento della situazione per compiere altre azioni unilaterali o giri di vite ingiusti nei confronti di tanta popolazione, lontana dal terrorismo, che vive in questa terra divisa. L’amministrazione americana sta mettendo finalmente a punto un nuovo piano che, come riferiva ieri il New York Times, il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman ha illustrato il mese scorso al presidente dell’Anp Abu Mazen. Molti passi avanti dovranno essere fatti.
Un’altra priorità (forse un’utopia) è che i Paesi arabi smettano di muoversi disinteressandosi alle conseguenze delle loro politiche. Parliamo dell’ Arabia Saudita, delle nazioni sunnite impegnate nella coalizione anti-Houthi e dell’Iran che sostiene questa milizia nello Yemen. Quanto sta avvenendo in questo Paese è molto più di una «guerra dimenticata». Perfino il termine «catastrofe umanitaria», seppure adeguato alla tragedia che si sta consumando, porta con sé il senso del già visto e non la cifra di una implacabile unicità: migliaia di vittime, il colera che si sta diffondendo come una macchia di petrolio nel mare, bombardamenti che colpiscono con micidiale precisione zone civili, città distrutte, fame, denutrizione, mancanza di acqua, malattie. Il sostegno degli Stati Uniti all’intervento militare saudita non è simbolico. Vedremo se a Washington capiranno che questa è un’unica, complicata matassa.

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