19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Federico Fubini

Per la prima volta la democrazia italiana si confronta fino in fondo su quale sia il senso di un’istituzione dell’euro. Non era questo l’obiettivo di chi ha scatenato la battaglia sul Mes, ma questo è il risultato. E non è male


Nel 1979 tre psicologi di Stanford — Charles Lord, Lee Ross e Mark Lepper — tentarono un esperimento per capire come funziona una comunità divisa. Distribuirono a due gruppi di persone, il primo favorevole e il secondo contrario, una descrizione della pena di morte. Al termine della lettura, i favorevoli erano ancora più radicati nella loro idea e i contrari anche. Questa è la definizione stessa di una società polarizzata: più passa il tempo e più le opinioni contrapposte diventano estreme, al punto che i due schieramenti in conflitto giungono a conclusioni antitetiche di fronte agli stessi fatti. A noi italiani Lord, Ross e Lepper dovrebbero dare da leggere la bozza di riforma del trattato sul Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Come con quel testo sulla pena di morte, dopo averlo letto ne trarremmo conclusioni inconciliabili tra loro. Per alcuni è alto tradimento, raggiro a favore delle banche tedesche, prelievo dai nostri conti «di nascosto» e «nottetempo». Per altri non è praticamente niente: solo un aggiustamento che cambia di poco le regole europee già esistenti e, nel complesso, lo fa soprattutto per migliorarle.
Negli ultimi giorni il Corriere ha spiegato in dettaglio in cosa consiste la revisione del Mes e dove in particolare il governo potrebbe cercare di modificarla un po’. Sicuramente non ci sono furti nottetempo e altre favole inventate per risvegliare le paure e alimentare la polemica. Altrettanto certo è che quel trattato sarebbe un po’ diverso, se a scriverlo fosse stata solo l’Italia e non fosse invece un compromesso fra diciannove governi. Resta comunque un accordo utile per le banche e in sé non rappresenta una minaccia per il debito maggiore di prima.
C’è però una buona notizia che, dilaniandoci, rischiamo di non vedere. Nel caos, in ritardo, fra falsi d’autore e mezze verità, per la prima volta la democrazia italiana ha un dibattito pubblico accanito su quale sia il nostro interesse in una decisione da prendere a Bruxelles. Per la prima volta si confronta fino in fondo su quale sia il senso di un’istituzione dell’euro. I politici sono costretti a leggere le carte (non sempre…), gli elettori si sforzano di capire problemi di cui non avevano mai sentito parlare. Non era affatto questo l’obiettivo di chi ha scatenato la battaglia sul Mes, ma questo è il risultato. E non è male.
Come nota Wolfgang Münchau, un osservatore tedesco dell’area euro, con l’Italia in passato spesso era andata in modo diverso: avevamo firmato tutto e il nostro silenzio non ha fatto bene all’Europa. In realtà negli ultimi trent’anni i governi di Roma avevano accettato molte delle indicazioni che arrivavano dalla Germania per ragioni via via diverse. Dapprima perché l’Europa e il suo vincolo esterno erano rimasti la sola risposta possibile a una società e una politica perse nella corruzione, nel clientelismo e nel debito come tampone di tutte le falle. Più tardi, a crisi ormai deflagrata, firmavamo tutto perché l’equilibrio finanziario del Paese era così precario che nessun ministro italiano si è mai sentito in grado di contrastare le indicazioni di Berlino. Andò così nel negoziato sul Fiscal Compact, un disegno troppo rigido che un’Italia sul ciglio del precipizio non poteva contrastare. Andò così anche sulle norme che colpiscono automaticamente i risparmiatori delle banche in dissesto. In quei casi nel Paese non ci fu alcuna discussione né comprensione della sostanza di ciò a cui ci impegnavamo. Il solo premier che si oppose con forza alla linea tedesca è paradossalmente quello a cui questo coraggio viene riconosciuto meno: Mario Monti, nel giugno del 2012. Per la prima e ultima volta  bloccò un Consiglio europeo in piena notte, fino a quando non ebbe dalla Germania ciò che chiedeva (all’epoca, in piena crisi del debito, l’impegno di principio a uno «scudo» contro la speculazione).
Ora il Paese è cambiato. Forse, disordinatamente (come sennò?), sta persino maturando. Non senza rischi, in questa atmosfera da guerra civile fra culture sulla questione europea. Per esempio fra gli europeisti italiani è così forte il timore che di ogni loro critica a Bruxelles si impossessino gli antieuropei, che la tentazione dell’autocensura è fortissima. Fra gli anti-europei d’Italia si trovano anche soggetti opachi, indifferenti alla verità, pronti a raccogliere qualunque materiale trovino sulla strada per stravolgerlo e piegarlo alla loro propaganda. Finisce così che gli europeisti italiani a volte tacciono, omettono, chiusi a riccio in una rappresentazione molto tedesca delle scelte di Bruxelles per evitare che qualunque loro dubbio venga strumentalizzato. C’è da capirlo, ma non è di questo che abbiamo bisogno per crescere. Gli italiani oggi sono pronti per un confronto aperto, adulto e soprattutto onesto sul nostro posto in Europa. Non l’abbiamo mai avuto. Non è tardi per provarci.

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