Ogni cinque anni è così: la campagna elettorale che precede il voto per una nuova legislatura – siamo arrivati alla decima – si frammenta e disperde, richiudendosi e infiammandosi dentro i perimetri nazionali
I ragazzi del circo di Kiev emigrati a Praga dopo le prime bombe russe, il 24 febbraio 2022, e accolti in una compagnia di “fratelli” acrobati – perché per continuare a sfidare il vuoto devi avere una rete dove cadere se cadi, quando cadi. Le feste sui tetti di Lisbona, tra imprenditori digitali nomadi, almeno un po’: trentenni affacciati su un universo fluido come l’oceano che hanno davanti, quell’oceano che spinge lontano anche chi sta fermo. I ristoranti di Riga che alle 9 di sera sono già chiusi perché tanto dalla città baltica se ne stanno andando via, quasi tutti. Gli agricoltori olandesi, con le loro mucche e le radici messe a terra dove prima c’era il mare, che non capiscono in nome di quale “bene comune superiore” dovrebbero smettere di coltivare l’acqua. In una palestra di Vienna, gli attivisti di Ultima Generazione che, armati di colla vernice cartelli, si esercitano a mettere i propri corpi di traverso, vale tutto purché si parli di clima, e al diavolo la riprovazione urbana. A Budapest, il concerto degli Assalti Romantici, la band che suona il rock sovranista in una selva rifiorita di purezze ungheresi. Le giovani madri single danesi, che procedono in equilibrio con sé stesse, e le ragazze di Malta che, lo sanno, non potranno abortire.
Sono alcuni frammenti di Questa è l’Europa, l’inchiesta che – negli ultimi mesi, tra articoli e podcast – ha portato giornaliste e giornalisti del Corriere (in regia la redazione Esteri e i documentaristi di Prospekt) a muoversi lungo le frontiere che il nostro Continente, vecchissimo e tuttavia imprevedibile, trattiene dentro di sé. Tracciati di cicatrici e continue ripartenze.
I racconti si sono sommati e sovrapposti, a tratti sono suonati così distanti da farci temere che davvero non potrà mai esistere “una narrativa europea”. Perché ogni cinque anni è così: la campagna elettorale che precede il voto per una nuova legislatura – siamo arrivati alla X – si frammenta e disperde, richiudendosi e infiammandosi dentro i perimetri nazionali. Eppure vediamo quanti nodi, riforme, minacce riguardano tutti i 27 membri dell’Unione, insieme. Eppure sappiamo che la taglia dei singoli Stati non tiene, non può tenere alla prova della Storia, e non c’è ormai sfida globale che abbia più chance di essere risolta dai governi, da soli, che da un centro condiviso. Eppure sentiamo che noi siamo questo, questa casa ancora in costruzione, faticosa sintesi di identità e convivenze, crisi dopo crisi, soluzione dopo soluzione, tra accelerazioni e deviazioni.
«Voi pensate: i tempi sono cattivi, i tempi sono pesanti, i tempi sono difficili. Vivete bene e muterete i tempi», disse Ambrogio, vescovo di Milano, nel IV secolo. Noi così vediamo il nostro tempo – cattivo, pesante, difficile – ma abbiamo smesso di pensare che «vivere bene» sia possibile in Europa, forse più che in qualunque altra provincia del Pianeta. Domani e dopodomani sono attese alle urne più generazioni. Quelli che, nel dopoguerra, intercettarono nel cammino di integrazione un’idea di pace credibile e una via d’uscita concreta dalle macerie. Poi i figli pieni di stupore dei primi viaggi Interrail e i nati negli anni Ottanta, che scoprirono il piacere esponenziale delle libertà volando low cost e scegliendo il proprio Erasmus su una mappa spalancata. Infine i “nativi europei”, i più giovani e fortunati tra noi, che non hanno mai conosciuto un’altra moneta e un’altra appartenenza, insofferenti alle code e alle dogane. Possiamo richiamarli indietro? Farli traslocare dalla grande casa comune, coi lavori sempre in corso ma già solida di contrafforti, agli appartamenti blindati di un’Europa delle nazioni, separate e rivali, regine ai giardinetti?
La nostra esplorazione alla vigilia del voto – dall’Est sulle barricate al Nord delle conquiste civili – ci ha in fondo confermato che le dissonanze non svuotano uno spartito che ancora ci tiene dentro tutti. Tentando, e ritentando, l’armonia in un unico movimento di accenti e desideri. Possiamo mettere in standby il traguardo federale, tenerne viva la tensione ideale e cercare intanto di stringere patti graduali, creativi, differenziati, che permettano di accelerare a quegli Stati che sono preparati e pronti. Augurandoci che mostreranno agli altri una strada possibile, e migliore.
Nel 1999, mentre un secolo nient’affatto breve si chiudeva traghettandoci in questo millennio, Claudio Magris, un intellettuale europeo dalla prima all’ultima riga, diede alle stampe una raccolta di saggi dal titolo Utopia e disincanto. Allineando storie e illusioni novecentesche, suggeriva una forma di speranza quasi clandestina, adatta al tramonto dei miti e delle luminose proiezioni nel futuro, ironica e nello stesso tempo agguerrita, resistente agli urti.
Venticinque anni dopo, potremmo rovesciare i termini. Partire dal disincanto, di cui siamo professionisti, e riafferrare per la coda l’utopia che prese forma in Italia, a Ventotene, prima che venga trascinata al largo da un’onda anomala.