10 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Claudia Voltattorni


Nei Consigli di amministrazione sono passate da 170 a 811 in 12 anni. Nei collegi sindacali oggi sono il 41,6%, con 475 sindaci, nel 2012 erano il 13,4%. C’è voluta una legge perché le donne riuscissero a sfondare il cosiddetto «tetto di cristallo» facendo sì che la presenza femminile ai vertici delle aziende non fosse più solo un auspicio. Ma nell’Italia del 2020 c’è ancora moltissimo da fare. Perché se le Quote rose sono state uno strumento fondamentale per fare «un salto in avanti» (ormai il 36,3% di donne siede nei Cda di aziende quotate, prima della Legge Golfo-Mosca erano solo il 7,4%), sono ancora pochi i cambiamenti profondi portati nel nostro sistema economico: nelle società non soggette alla legge, la quota scende drasticamente al 17,7%. Stanno funzionando per la rappresentanza politica, segnando un aumento del «political empowerment» con l’Italia che dal 72mo posto del 2006 nella classifica del World Economic Forum è salita al 44mo del 2020. Ma restano ancora troppe invece le disparità salariali e troppo poche le presenze femminili in ruoli davvero operativi e quindi funzionali per un cambiamento.

Disparità salariali e poche donne alla guida
Basti vedere due dati: appena 14 le amministratrici delegate nelle società quotate (il 6,3%) e solo 24 le presidentesse (10,7%). Tra i dirigenti, solo il 31,9% è donna, mentre il gap salariale non accenna a calare, anzi: 10.2% in media la disparità tra uomini e donne, con le retribuzioni più basse del 9,6% per le impiegate, del 10,6% per le operaie e del 9% per le dirigenti.
I risultati del primo Osservatorio Cerved-Fondazione Bellisario 2020 realizzato in collaborazione con l’Inps sulla presenza femminile nelle aziende lo dicono con chiarezza: «Sono poche le società quotate che sono andate oltre le disposizioni normative, superando lo stretto necessario per rispettare la legge». La legge c’è – la Golfo-Mosca del 2011 – ed è stata anche appena prorogata innalzando al 40% la presenza obbligatoria del genere meno rappresentato (le donne, quindi) ai vertici delle aziende quotate. Ma le Quote rosa «non sono state sufficienti a riequilibrare la presenza di donne nelle posizioni di vertice e a più alto reddito, né a ridurre i divari salariali», dice Andrea Mignanelli, ad di Cerved. Anzi, «l’Italia – dice Lella Golfo, promotrice della legge e presidente della Fondazione Bellisario – continua a mostrare ritardi consistenti».

In coda all’Europa
Il rapporto ha analizzato le aziende con una maggiore presenza di donne ai vertici e gli effetti «a cascata» sul resto delle lavoratrici e ha rilevato che «l’incremento della quota di donne nel CdA non si è tradotto in un incremento nella rappresentazione femminile nelle posizioni apicali o tra le occupazioni a più elevato reddito, né ha promosso una maggiore presenza di donne nelle società non quotate». Infatti, secondo l’indice del World Economic Forum, l’Italia è il 76mo Paese al mondo, su 149 censiti, per disparità di genere. Le donne che lavorano sono poco più della metà, il 56,2 per cento: siamo il terz’ultimo Paese europeo per occupazione femminile, dietro solo Macedonia e Turchia. E a guardare la divisione tra Nord e Sud, il 54,2% delle donne lavora al Nord, solo il 22,5 e il 23,3% sono donne occupate al Centro e nel Mezzogiorno. Nelle società non quotate e quindi non obbligate per legge a rispettare la parità di genere, la presenza femminile è aumentata solo in quelle con un fatturato maggiore di 200 milioni di euro, passando dall’8,7% al 16,5% di donne nei Cda, ma questo non si è tradotto con un maggior numero di donne con il ruolo di Ad.

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