19 Settembre 2024

Fonte: La Ventisettesima Ora

di Maria Silvia Sacchi e Luisa Pronzato


Secondo l’ultimo studio di Mediobanca sui compensi dei consigli di amministrazione, il consigliere delegato di una grande impresa italiana quotata in Borsa percepisce uno stipendio pari a circa 38 volte quello medio dei suoi dipendenti. Un dato che si riduce a 18,5 volte se si prendono in considerazione tutte le imprese di Piazza Affari, ma che resta troppo alto rispetto a quanto l’imprenditore illuminato Adriano Olivetti indicava come un giusto rapporto: 10 volte il salario minimo.
I numeri, però, sarebbero ancora più alti se non ci fossero le donne ad abbassare la media (purtroppo sono poche le donne che rivestono cariche di vertice nelle aziende di Piazza Affari, solo il 10% ciascuno dei presidenti e degli amministratori delegati e il 18% dei presidenti di collegio sindacale). Così, se un presidente uomo ha un compenso medio di 524,8 mila euro, una presidente donna scende a 267,2 mila euro. Un amministratore delegato uomo supera il milione di euro, se donna supera di poco i 400 mila euro. Le donne dei consigli di amministrazione guadagnano più degli uomini solo nelle fasce più basse, quelle che restano sotto i 50 mila euro. Ma oltre il tetto dei 200 mila troviamo solo il 4,8% delle donne rispetto al 24,3% degli uomini. Una quasi parità dei compensi si ha solamente nei collegi sindacali.
Bastano le quote di genere, divenute legge nel 2011 e vincolanti dall’agosto 2012, a cambiare lo stato delle cose?
Una situazione simile anche se si guardano le classifiche di Reputation Science sulla reputazione dei top manager: nel 2018 tra i primi venti ci sono solo nomi di uomini. E qui si arriva a una domanda: bastano le quote di genere, divenute legge nel 2011 e vincolanti dall’agosto 2012, a cambiare lo stato delle cose? Soprattutto: cosa succederà dopo che la legge Golfo-Mosca (che le ha introdotte) andrà a decadere, dal momento che, valendo per un totale di tre mandati dell’organo sociale, andrà presto a esaurirsi?
Oggi i Cda si sono adeguati al 33% previsto dalla legge (le donne sono soprattutto consigliere indipendenti), alcuni gruppi hanno introdotto tetti negli statuti validi anche post-legge e l’equilibrio di genere è stato introdotto nel Codice di autodisciplina (su volontà della presidente del comitato corporate governance Patrizia Grieco) nella formula del «comply or explain» (applica o spiega perché non lo hai fatto). Eppure, la discussione è in corso. Perché i segnali di un possibile ritorno indietro sono diversi e arrivano dalle ultime nomine alle Presidenze — dalla Rai alle Ferrovie — interamente maschili, così come da un sentimento diffuso tramite i social.
Per incidere occorre che le donne siano in una ragionevole «massa critica», ovvero non meno di due per consiglio di amministrazione. Come ha sottolineato la Consob, l’organismo di controllo del mercato in uno studio sugli anni 2008-2016, la diversity porta risultati economici positivi alle imprese, ma perché questo avvenga occorre che le donne siano in una ragionevole «massa critica», ovvero non meno di due per consiglio di amministrazione. Altrimenti non riescono a incidere.
In Europa sono diversi i Paesi che hanno introdotto le quote (dalla Francia alla Spagna), a fronte di altri che hanno preferito la strada del «comply or explain».
La 27ora ha avviato una indagine internazionale, che sarà pubblicata nelle prossime settimane, per comprendere pregi e difetti dei due sistemi, i risultati ottenuti e anche le possibili soluzioni affinché dai consigli di amministrazione i cambiamenti arrivino al management, l’anello più debole di tutta la catena della parità uomo-donna nelle aziende.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *