19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera


di Alessia Mosca


I commenti seguiti alle elezioni amministrative nell’ultima settimana hanno taciuto una prospettiva importante, quella di genere, che racconta la sconfitta più desolante. Le sindache elette sono state 101, su un totale di 836 comuni. Il 12% nel totale dei comuni, che scende al 9% nei comuni capoluogo. Un dato persino in peggioramento rispetto alle elezioni amministrative dello scorso anno. Non solo: dei 2.590 candidati alle amministrative, le donne erano 453, ovvero il 17,5 per cento. Sono numeri evidentemente troppo bassi per poterci permettere di ignorare l’esistenza di un problema sistemico e attribuire il risultato alla differenza tra competenze dei candidati.
«Sembrava una conquista acquisita», scriveva Monica Guerzoni sul Corriere pochi giorni fa, «invece non lo è». Vale la pena andare un po’ in profondità, cogliendo l’occasione di un anniversario a cui tengo molto: ad agosto, infatti, saranno cinque anni dall’entrata in vigore della legge sulle quote di genere nei consigli di amministrazione. Credo che un bilancio sia necessario non solo per valutare ciò che è stato realizzato ma soprattutto per cominciare a definire i prossimi passi.
Iniziamo dai dati: le donne, nelle società interessate dalla Golfo-Mosca, sono passate dal 7 al 31,6 per cento dei membri dei cda. Non solo: le donne entrate nei board sono, in media, più giovani, più istruite e meno legate alla famiglia dell’azionista di maggioranza rispetto ai loro colleghi uomini. L’apertura dei cda alle donne, quindi, ha dato luogo a una maggiore trasparenza nella selezione (dove contano per tutti — oggi più di ieri — curriculum, competenze ed esperienze) e a un consequenziale innalzamento della qualità di tutti i componenti. La legge Golfo-Mosca rappresenta un’innovazione anche nel metodo. Innanzitutto, per l’esteso coinvolgimento, dentro e fuori il Parlamento, che abbiamo promosso dal primo momento e che è stato indispensabile per la sua approvazione. In secondo luogo, perché ha una «data di scadenza», che serve lo scopo di avviare un cambiamento culturale (e non creare la cosiddetta «riserva indiana» permanente).
Infine, il monitoraggio. Con il progetto «Women mean business and economic growth» è stato possibile tenere traccia non solo del mero dato numerico, ma di tutti gli effetti qualitativi. Tutto bene, dunque? Non proprio. Tra le ambizioni più ampie della legge vi era quella di fare da catalizzatore di un cambiamento più esteso, che purtroppo non è avvenuto, come dimostrano anche i risultati delle amministrative sopra richiamati. Una delle forze della legge 120 è stata quella di indirizzare tutti gli sforzi, quelli del legislatore e quelli del settore privato, nella medesima direzione per moltiplicarne l’effetto. Negli ultimi anni, invece, abbiamo assistito a un sostanziale rallentamento — se non immobilismo — su entrambi i fronti. Nelle imprese non ci sono state maggiori opportunità per le donne, nella misura che avevamo auspicato.
La rivoluzione nella composizione dei consigli di amministrazione non ha portato un cambiamento altrettanto rilevante per tutte le altre donne in azienda. Eppure gli strumenti possibili sono molti: dal bilancio di genere alla flessibilizzazione del lavoro; da un’innovativa politica di congedi parentali a un welfare aziendale sempre più attento alle esigenze dei lavoratori e delle lavoratrici, fino alle iniziative specifiche volte allo sviluppo della carriera delle donne.
Per quanto riguarda il lavoro legislativo, non si riscontrano grandi passi avanti: la maggior parte delle proposte si sono arenate all’inizio dell’iter parlamentare, con l’eccezione di alcune iniziative importanti, come quella relativa alle «dimissioni in bianco». Il mio messaggio è dunque: non stiamo facendo ancora abbastanza. Su questi temi, non vi è niente di acquisito una volta per tutte. Anzi, si fa presto a tornare indietro — l’esperienza con Trump insegna. Nessuna può sentirsi esentata dal promuovere il cambiamento, per sé e per tutte le donne che in quel momento hanno meno voce di lei. L’unico modo per non arretrare è continuare a camminare.

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