OPINIONI
Fonte: Il Fatto QuotidianoIl nostro Paese, nelle parole del docente di Storia della Filosofia e Teoria e tecnica dei nuovi media all’Università di Urbino.
Con una riflessione sui movimenti “spontanei”- come quello dei forconi – che la sinistra contemporanea non sa orientare né rappresentare
Paolo Ercolani insegna Storia della Filosofia e Teoria e tecnica dei nuovi media all’Università di Urbino. Collabora per l’inserto “La Lettura” del Corriere della Sera e per “Il Rasoio di Occam” diMicroMega ed è redattore della rivista Critica Liberale. I suoi libri hanno spesso suscitato un dibattito acceso. Tra questi: Il Novecento negato. Hayek filosofo politico; Tocqueville: un ateo liberale; La storia infinita: Marx, il liberalismo e la maledizione di Nietzsche; L’ultimo Dio. Internet, il mercato e la religione stanno costruendo una società post-umana; Qualcuno era italiano.
Nel suo libro Qualcuno era italiano descrive lo sfascio del nostro Paese: stragi impunite, colpevoli in libertà, una classe dirigente inadeguata che è stata in grado di collezionare solo fallimenti, una casta politica corrotta. A quando risale l’inizio del caos?
Una data simbolica come quella del 1989 può fare al caso nostro. L’anno in cui la società industriale ha lasciato il passo a quella in Rete, ma soprattutto in cui è finito il vecchio mondo diviso in due blocchi. L’Italia si è ritrovata come un minorenne abbandonato dai genitori, che in questo caso erano gli Stati Uniti, e da una posizione geografica strategica che ci garantiva risorse e benessere. Questa posizione di rendita è finita a partire da quella data, quando si è trattato di entrare nel mondo degli adulti, e lì ci siamo riscoperti ad essere un Paese culturalmente medioevale, politicamente ed economicamente bloccato da inerzie e privilegi, privo di quel dinamismo sociale che solo può garantire l’emergere di idee, persone e progetti nuovi. Adeguati ai tempi profondamente mutati. Ma si potrebbe andare molto più indietro nel tempo, se è vero che già il Machiavelli dei Discorsi scriveva che “chi nasce in Italia ed in Grecia ha ragione di biasimare i tempi suoi”.
Gaber scrisse una canzone dal titolo Qualcuno era comunista e tra i tanti motivi che elencava c’era quello “perché Berlinguer era una brava persona”. Qualcuno era italiano perché?
Perché siamo uno dei Paesi più belli al mondo, con una cultura straordinaria, paesaggi da sogno, cibo e località turistiche uniche e quanto mai variegate. Tutte cose che abbiamo di volta in volta affidato ad amministratori scadenti, a corporazioni bloccate e, più in generale, governate da una mentalità medioevale che non considera il merito e la capacità di innovazione, ma soltanto le appartenenze a questa o quell’altra corporazione vetusta e interessata soltanto a gestire la propria porzione di potere. Il motto del Risorgimento era “o si fa l’Italia o si muore”. Ora, l’Italia in qualche modo è stata fatta, ma se non la liberiamo dalla mentalità medioevale delle chiese, dei feudi e di una cultura del privilegio non sopravvivremo nell’agone del mondo globalizzato.
L’individualismo e la mancanza di senso dello stato e quindi del bene comune: sono questi i mali peggiori dell’Italia?
Sono fra i mali più antichi e radicati del nostro Paese, se è vero che già Leopardi scriveva che “gli usi e i costumi in Italia si riducono generalmente a questo, che ciascuno segua l’uso e il costume proprio, qual che egli si sia”. Ma non parlerei propriamente di individualismo, che è un sentimento fisiologico e perfino nobile, quanto piuttosto di “solipsismo”. L’assenza di una cultura nazionale nobile e forte, ha prodotto un Paese di monadi ripiegate su se stesse, concentrate esclusivamente sul proprio “particulare” e incapaci di una visione che sappia estendersi al bene comune e ad una prospettiva di medio-lungo corso. Siamo il Paese del “qui e ora”, ma anche uno studente di filosofia al primo anno sa che si tratta di una dimensione sterile ed evanescente. Sono molto più reali il passato da cui attingere e imparare, e il futuro per cui battersi e costruire un mondo ragionevolmente migliore. Ma il male peggiore è il corporativismo, vera e propria piaga di un Paese vittima dei retaggi del medioevo, dove le piccole e grandi caste chiuse sviliscono la meritocrazia e perpetuano una classe dirigente mediamente inadeguata.
La protesta sta dilagando. Ora in piazza c’è il movimento dei Forconi. C’è in questo spontaneismo una nuova versione del lumpenproletariat?
Credo di no. A mio parere, più che di “sottoproletariato” o “proletariato degli straccioni”, per usare l’espressione di Marx, dovremmo parlare di una crisi del ceto medio produttivo, o della borghesia, che con il crollo del suo potere d’acquisto ha trascinato inevitabilmente nel disagio sociale anche quelli che sempre Marx chiamava “shopkeepers” (“bottegai”). Se a questo aggiungiamo quanto scriveva un grande italiano come Gramsci, e cioè che soprattutto in presenza di una crisi economica “avviene quasi sempre che a un movimento ‘spontaneo’ delle classi subalterne si accompagna un movimento reazionario della destra della classe dominante”, ecco che possiamo farci un’idea più razionale di quanto sta accadendo oggi. Senza dimenticare quello che rappresenta il vero fallimento storico della sinistra contemporanea: l’incapacità di orientare quei movimenti spontanei, di fornire loro una direzione consapevole innalzandoli al piano superiore della politica con la P maiuscola, per rifarsi ancora una volta al buon Gramsci.
Internet e i social-network muovono la protesta. Non pensa che manchi la figura del “Principe”?
Certamente la crisi della politica, e con essa dei partiti politici in quanto soggetti culturalmente aggreganti e organizzatori delle istanze sociali, ha prodotto una carenza di “luoghi” effettivi attraverso cui affrontare le contraddizioni del tempo presente. Si tratta, a pensarci bene, del risultato di due fattori concomitanti: da un lato il dominio dell’economia e della lex mercatoria sulla politica e su un’idea di “polis” come luogo in cui al centro vi sono i diritti e gli interessi delle persone (e non dei mercati e delle loro leggi fredde, impersonali e spesso dis-umane). Dall’altra è giunta a compimento un’operazione funesta che nel nostro Paese risale almeno agli anni Settanta del secolo scorso: sto parlando dell’impoverimento e dello svilimento della scuola, della ricerca e in generale dell’idea che la cultura e l’istruzione rappresentino dei valori fondanti per un cittadino fornito di diritti e doveri sociali. Siamo piombati più o meno inconsciamente nella società dell’informazione dimenticando quel piccolo particolare, in realtà decisivo, che risponde al nome di “formazione”. Questa è l’epoca in cui siamo informati su tutto ma di fatto non sappiamo nulla o quasi. E il rischio più grande è quello per le giovanissime generazioni.
Nella protesta spesso si avverte un’avversione nei confronti degli intellettuali. C’è un motivo? Manca la figura di una grande coscienza critica come in passato, per esempio, è stato Pierpaolo Pasolini?
Gli intellettuali, se mi permette la metafora, sono come i frutti della terra. Quelli buoni nascono dove c’è un terreno reso fertile e curato. La nostra, proprio per citare Pasolini, è l’epoca della “misologia” (un’espressione usata da Platone nel Cratilo) assurta a sistema di vita e gestione del consesso sociale. In questo contesto gli intellettuali seri, quelli che non si sottomettono al teatrino della società dello spettacolo (e alla cultura di una produzione letteraria seriale e finalizzata esclusivamente al profitto), vengono emarginati o ridotti al silenzio de facto. Il trionfo della “ragione economica” ha imposto la mortificazione di altre ragioni (politica, etica, sociale), fino a portarci al punto di una “trasvalutazione” dei valori umani, ormai sottomessi alla soddisfazione dei diktat provenienti dalla finanza internazionale. In una dimensione del genere gli intellettuali svolgono inevitabilmente un ruolo marginale: sia quelli che si sottomettono (perché non hanno nulla di originale da dire) sia quelli che si oppongono (perché spesso si auto-condannano alla «follia» di chi nuota contro una corrente unica e fortissima).
Quali colpe attribuisce alla televisione?
Non parlerei di colpe, nello specifico. La televisione, per citare il mio lungo dialogo con Carlo Freccero (riportato nel libro Qualcuno era italiano), ha rappresentato il più grande supporto, a livello tecnologico, di quell’operazione sistematica di distruzione della ragione operata dall’ideologia economica. Per avere individui proni ai voleri dei mercati (pensiamo a Mario Monti, che non si faceva problemi a dichiarare che stava lavorando per soddisfare i diktat economici, piuttosto che occuparsi del benessere dei cittadini del Paese da lui governato), occorre che suddetti individui siano spogliati dell’autonomia di giudizio e della capacità di critica. In una parola, che siano resi irrazionali. E la televisione, come scrive Freccero, è il primo mezzo di comunicazione a rivelare la sua natura intrinsecamente “irrazionale”.
Ha fiducia nei giovani?
Abbiamo un bisogno disperato che il Paese torni a dare fiducia alle persone che studiano, che si impegnano nella costruzione della propria personalità e professionalità senza perdere di vista l’idea del bene comune, che recuperano autonomia di giudizio e capacità di critica rispetto ai troppi slogan imposti dalla società dello spettacolo. Che poi siano giovani, di mezza età o vecchi, credo che non rappresenti un dato interessante. Un Paese serio e civile non si forma sulla base di criteri propri dello sport, dove conta se sei un “over” o un “under”. Un Paese serio e civile forma e valorizza i migliori in vista del bene comune, sfuggendo a ogni tipo di etichettatura preconcetta.