23 Novembre 2024

Ci sono oggi molti campi nei quali l’interesse nazionale è meglio servito cedendo sovranità a organismi internazionali, o attraverso accordi e compromessi tra gli Stati. L’esempio di De Gaulle

Giorgia Meloni sta sperimentando a Palazzo Chigi — ma forse la conosceva già — una contraddizione della sua politica: sovranismo e nazionalismo non sono sinonimi. Anzi, entrano spesso in conflitto tra loro. Ci sono oggi molti campi nei quali l’interesse nazionale è meglio servito cedendo sovranità a organismi internazionali, o attraverso accordi e compromessi tra gli Stati.
Gli esempi sono innumerevoli. L’immigrazione, oggetto di un braccio di ferro all’ultimo vertice europeo tra i tre premier «sovranisti» Meloni, Morawiecki e Orbán, è solo il più recente e clamoroso. L’Italia ha ovviamente fatto bene a sottoscrivere l’accordo comune, e ha potuto constatare che gli alleati «politici» del nostro governo sono stati i meno solidali con il nostro problema. Qualcosa da segnare sull’agenda per chi immagina che una maggioranza popolar-sovranista possa governare meglio l’Europa dopo le elezioni del prossimo anno.<
Ma il principio vale per molte altre questioni. Prendiamo la difesa: è una delle prerogative più gelosamente custodite dagli Stati nazionali, quintessenza della sovranità. Eppure l’abbiamo messa in comune nella Nato, senza di essa saremmo ben poco difesi. E se volessimo attrezzarci meglio per un mondo in cui a pochi chilometri dai nostri confini sono ricominciate le invasioni barbariche, dovremmo farlo comunque all’interno di un nuovo sistema di difesa europea, condivisa con francesi, tedeschi, spagnoli.
Oppure ancora: per reggere alla sfida dei mega-investimenti di Stati Uniti e Cina nei loro apparati industriali, possiamo pensare di cavarcela da noi, con la manciata di aiuti di Stato che il nostro zoppicante bilancio pubblico consentirebbe? O serve, come l’Italia chiede, un Fondo sovrano europeo che rivoluzioni la tradizionale politica anti-sussidi e pro-concorrenza di Bruxelles?
La contraddizione tra sovranismo e nazionalismo può stupire solo chi ha creduto in questi anni alla propaganda dei cosiddetti «populisti», cui non è stata certo estranea, dall’opposizione, Giorgia Meloni. D’altra parte il termine «sovranità» fu inventato (da Jean Bodin, a metà del Cinquecento) per fondare le basi teoriche dell’assolutismo monarchico, in cui il sovrano è «legibus solutus» e non ha altro potere sopra di sé se non quello divino. Mentre invece il concetto di «nazione» è il prodotto della Rivoluzione francese, e deriva dal pensiero democratico di Jean-Jacques Rousseau.
I nazionalismi non sono poi affatto uguali. Nella storia l’idea di nazione è stata usata sia per liberare popoli oppressi, come nella costruzione dell’Italia unita, sia per opprimere altri popoli, come è avvenuto con la Germania nazista. Ancora oggi il nazionalismo ucraino, che fin dalla Costituzione del 1991 si basava sulla cittadinanza, cioè sull’uguaglianza civile tra tutti i residenti, compresi quelli che si dichiaravano di nazionalità russa, si batte da tempo per entrare nell’Unione europea; mentre quello russo, avverso all’Europa, «si pone come centro anche etnico di una rinnovata sfera imperiale, in un progetto super-etnico, chiuso e dominatore» (Andrea Graziosi in «L’Ucraina e Putin», Laterza).
C’è quindi una buona ragione per cui un’Italia uscita a pezzi dalla guerra, sotto la guida di De Gasperi, volle a tutti i costi partecipare fin dall’inizio sia al progetto atlantico sia al progetto europeo. Fu senza dubbio un atto di patriottismo, una specie di «seconda Costituzione» che segnò allora e in parte ancora segna il perimetro delle forze politiche abilitate a governare il nostro Paese. Se si pensa che il Movimento Sociale Italiano, progenitore di Fratelli d’Italia, votò nel 1949 contro il Patto Atlantico su basi «nazionaliste» e contro «l’imperialismo americano», si capisce quanta strada abbia fatto la destra di Giorgia Meloni nell’individuare dove veramente risieda l’interesse nazionale.
Molti osservatori dicono che la premier ha due facce, una aggressiva e «sovranista» in patria e una accomodante ed «europeista» a Bruxelles. Ma a parte il fatto che questo già sarebbe un progresso, bisogna ammettere che finora la premier se l’è cavata piuttosto bene nella dimensione europea. Grazie soprattutto alla posizione senza ambiguità sull’Ucraina; ma anche grazie all’adozione di una disciplina di bilancio di stampo «draghiano».
Meloni sembra insomma consapevole della contraddizione insita nella sua politica, e prova ad aggirarla senza perdere voti a vantaggio di una destra anche più «sovranista», che Salvini si propone di incarnare. Per questo ha finora adottato un criterio: su quello che è stato fatto prima di me, tipo Mes, resto contraria; ma esalto ciò che si fa in Europa ora che ci sono io, vedi patto sui migranti. È un tentativo comprensibile di salvare capra e cavoli. Non può però durare all’infinito. Il passo successivo è riconoscere che nell’interesse nazionale italiano c’è anche la credibilità garantita dal rispetto dei patti assunti dai governi precedenti, come nel caso del Mes e del Pnrr. La firma dell’Italia impegna anche lei.
Appena eletto presidente nel 1958 Charles De Gaulle, il campione di tutti i «sovranisti», confermò a sorpresa il sì di Parigi ai Trattati di Roma che avevano istituito la Comunità economica europea, firmati dall’ultimo governo della Quarta Repubblica, cui i suoi seguaci si erano ferocemente opposti. Per la semplice ragione che era nell’interesse della Francia. Non dovremmo essere noi a ricordarlo a una «nazionalista».

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