Fonte: La 27 Ora
di Maria Serena Natale
Doveva essere l’anno delle donne. Chi avrebbe immaginato, dodici mesi fa, che il 20 gennaio 2017 non si sarebbe insediata Hillary Clinton, prima donna presidente degli Stati Uniti, ma Donald Trump? Doveva essere il coronamento politico e simbolico di una marcia secolare per l’emancipazione e i diritti, incoraggiamento a bambine e ragazze di tutto il mondo. Invece alla Casa Bianca arriverà l’uomo che ha costruito il proprio personaggio/marchio (televisivo e imprenditoriale) su un’idea di mascolinità che, con il suo carico di ruoli stereotipati e paternalismo, riporta indietro le lancette di decenni. La sensazione è che, insieme a Hillary, sia stato sconfitto l’intero movimento femminista.
Un balzo all’indietro che può essere considerato una reazione, in certo modo fisiologica, di parte della società statunitense alla dittatura del politicamente corretto — fase fastidiosa ma a sua volta necessaria per disabituare la collettività alla rissa verbale e alla quotidiana lotta per la sopraffazione. C’è chi oggi vede nella vittoria di Trump un’occasione per rilanciare un femminismo effettivamente esangue, non più in sintonia con urgenze e ideali delle giovani generazioni. C’è però anche chi sottolinea come la stessa campagna elettorale abbia reso evidente una verità rimossa: la graduale scomparsa, nella disattenzione generale, di un discorso pubblico che includesse temi davvero rilevanti per le donne, come le molestie che non sono mai state sradicate e che abbiamo improvvisamente «riscoperto» con le denunce contro Trump.
Giunto ormai alla terza generazione, il femminismo ha realizzato di aver giustamente dedicato tempo ed energia a sorvegliare il linguaggio e contrastare i comportamenti discriminatori, ma pure di aver perso di vista il dialogo tra i sessi e soprattutto le questioni che stanno più a cuore alle donne nella loro quotidianità. In primo luogo l’economia. Si spiega così l’insofferenza della classe bianca lavoratrice, che ha ritrovato nella battaglia «vetero-femminista» incarnata da Hillary una causa sentita, più che altro, dalle odiate élite. In realtà la piattaforma economica di Clinton era incentrata su temi più che mai attuali, come parità di retribuzione, politiche di sostegno per l’accudimento dei figli, congedi parentali ed estensione dell’assicurazione sanitaria a mammografie e controllo delle nascite. Eppure è stata percepita come distante, di sicuro perdente nel confronto con il messaggio, più vago ma diretto, di Donald Trump: riportare posti di lavoro a casa e restituire agli americani gli standard di vita del passato.
E ora? Come può il femminismo «aggiornarsi» in modo da intercettare i bisogni concreti delle donne che ogni giorno scendono su più ring? La domanda resta aperta. Secondo la lettura offerta da Susan Chira sul New York Times, la chiave è legare i due messaggi, ideale e pratico: «Prendere questioni decisive per le donne e mostrare come possano aiutare l’intera società».
Non appassiona più, ma niente alibi. La nuova sfida è spiegare che il femminismo non è un lusso per donne privilegiate che possono anche permettersi di essere liberali, ma una condizione irrinunciabile per la liberazione di ogni donna. E di tutti noi.