È l’ora di ricostruire mondi migliori. Non parliamo di madri, lasciamole parlare. E puntiamo al 30% dei posti generati dal Pnrr
Riavvolgiamo il nastro delle ultime settimane e fermiamoci sulle due notizie che più hanno fatto parlare, commentare, discutere di come le donne vivono nel nostro Paese, nel terzo decennio del terzo millennio. La prima. Un neonato è morto, in un ospedale di Roma, soffocato dal corpo della madre che si era addormentata, indebolita da un travaglio lungo e complicato come spesso succede, sfinita dall’insonnia e dallo smarrimento delle notti successive al parto. Questa tragedia ha spalancato le porte di una stanza segreta. Una stanza traboccante di storie personali, ciascuna irripetibile e tuttavia collegata a migliaia di altre. Storie che sono salite, da un oscuro fondo indicibile e rimosso, verso la superficie lampeggiante dei social. Le piattaforme digitali, che nei meno giovani tra noi suscitano diffidenza per il coefficiente di bugie e negazionismi, si sono trasformate in un’ansa di riconoscimento tra madri, di generazioni anche lontane, che hanno cominciato a raccontare. Quanto è stato difficile non sentirsi sopraffatte dal disagio di fronte alla chiamata esterna/interiorizzata a essere pronte, adeguate, possibilmente perfette. Quanto è stato difficile non sentirsi ridicole nello spavento davanti a una vita nuova e imperscrutabile.
La seconda. L’Istat ha comunicato, pubblicando le tabelle finali del 2022, che il 90 per cento dei nuovi occupati si è rivelato “maschio”: erano quasi tutti uomini quelli che hanno (ri)trovato un posto. Una percentuale che ha riportato alla memoria un altro dato. Quel 99 per cento di lavori perduti a inizio pandemia, nella primavera-estate 2020: erano quasi tutti “femmina”. Questo succede in un Paese dove – pre e post Covid – soltanto una donna su due ha un lavoro retribuito. Lo stesso Paese dove studi di Bankitalia ripetono che, se il tasso di occupazione femminile arrivasse invece al 60%, il Pil nazionale – quindi la ricchezza generale, non quella delle donne – farebbe un balzo incredibile rispetto alla media delle ultime faticose stagioni: +7 per cento.
Ma che cosa unisce due notizie così diverse? La storia di una mamma e del suo bambino perduto che è diventata un fiume collettivo e smarginato di emozioni, dolore, rabbia. E i numeri freddi, lineari e chiusi, comunicati dall’Istituto Nazionale di Statistica. Le unisce, queste due notizie italiane, la mancanza di spazio e ascolto. Domina, ancora, un’idea astratta e tradizionale di quello che le donne sono, o dovrebbero essere, per combaciare con l’orizzonte di attesa che le precede e aspetta al varco. Tutta la retorica, pericolosa fino alla disattenzione dolosa, sulla maternità come sacrificio e abnegazione: il parto con dolore come regola e prima prova d’amore; la sofferenza materna, fino alla depressione, come irrilevante se non decisamente bizzarra, imbarazzante. E, sull’altro fronte, la superficialità con la quale i dati inaccettabili sul lavoro (mancante) delle donne vengono denunciati e subito sommersi da altre emergenze, annegati nella convinzione che adesso c’è «ben altro» da affrontare e risolvere se vuoi salvare il Paese.
È il momento di smontare architetture attribuite alla natura, come fossero un bosco verticale inscalabile, che sono invece soltanto il risultato di consuetudini dannose per la comunità intera. È il momento di ricostruire mondi migliori e possibili. Non parliamo di madri, lasciamo parlare le madri. Rispettiamo il patto alla radice del Piano di ripresa e resilienza nazionale secondo il quale il 30 per cento degli occupati generati dagli investimenti europei devono essere donne. In fondo è solo il 30, non il 51, quante sono le donne nella popolazione italiana.