C’è stato un patto tacito tra predecessore e successore, per evitare sbandamenti in nome dell’unità della Chiesa
La morte del papa emerito Benedetto XVI fa vacillare gli equilibri vaticani. Equilibri precari, anomali, controversi, perfino discutibili. Ma per quasi dieci anni la coabitazione epocale tra l’argentino Jorge Mario Bergoglio e il tedesco Joseph Ratzinger all’interno della città dei Papi ha garantito un simulacro di stabilità. Non era scontato, e la loro capacità di dare una parvenza di normalità a una situazione che ha traumatizzato la Chiesa cattolica nel febbraio del 2013 va sottolineata come una sorta di miracolo compiuto in nome dell’unità. Ma proprio perché il Monastero di Benedetto e Casa Santa Marta, l’hotel dove risiede Francesco, erano diventati luoghi familiari nel panorama vaticano, pur nella loro atipicità, c’è da chiedersi cosa potrà avvenire ora che viene a mancare uno dei due punti di equilibrio. Qualcuno ha detto che dal 31 dicembre, dalla scomparsa del Papa emerito, Bergoglio è più solo. Osservazione singolare: finalmente, bisognerebbe sottolineare, si torna alla normalità di un solo papa vestito di bianco, senza ombre di un potere parallelo che i nemici possono usare contro quello legittimo.
Eppure, per paradosso c’è qualcosa che può rendere verosimile una riflessione così contraddittoria. Il fatto che Benedetto abbia accompagnato l’intero pontificato di Francesco ha creato una sorta di abitudine all’idea dei «due papi», tale da far ritenere necessaria una ridefinizione dell’agenda e dell’approccio dell’attuale. Di colpo, si ha l’impressione che l’uomo del Monastero in questi anni abbia stabilizzato e non messo in tensione l’inquilino di Casa Santa Marta. Ha rappresentato un argine contro la pressione degli ambienti tradizionalisti più irriducibili, ostili a Bergoglio.
Forse ha anche permesso a quest’ultimo di frenare in modo simmetrico le spinte delle frange radicali, che vorrebbero riforme più dirompenti. C’è stato un patto tacito tra predecessore e successore, per evitare sbandamenti nell’una e nell’altra direzione, in nome dell’unità della Chiesa: accordo che le rispettive «tifoserie», per motivi più di potere che teologici, hanno visto sempre come un ingombro. Il rischio che, saltato il diaframma di Benedetto, lo scontro nei palazzi vaticani e negli episcopati si inasprisca, finendo per scaricarsi su Francesco, non va escluso, né sottovalutato.
In questi anni anomali, le tensioni sono state forti, e a intermittenza sotterranee, plateali, contenute. Ma che le divisioni interne rimangano forti, e che l’avversione nei confronti di Francesco e del suo governo del Vaticano sia cresciuta a dispetto di una narrativa edulcorata e di comodo, è indubbio. Con un’ulteriore incognita da sottolineare. Si è sempre detto che il papa argentino «non poteva» dimettersi fino a che Benedetto fosse stato vivo. Ma in via di principio, l’ipotesi di una rinuncia compiuta anche da lui ha sempre aleggiato. Lo stesso Bergoglio non ha escluso l’eventualità.
E questo mentre in quasi dieci anni nessuno ha avuto il coraggio o la forza di porre il problema di cosa succede nel caso di «dimissioni» di un pontefice: non esiste regola in proposito. La prospettiva è dunque quella di un’incertezza destinata a ristagnare; e di una moltiplicazione delle manovre in vista di un prossimo Conclave, che alcuni considerano prossimo contando o temendo un nuovo gesto «alla Ratzinger». Non si conoscono le intenzioni di Francesco, come erano ignote nel febbraio del 2013 quelle di Benedetto, tranne che a una ristrettissima cerchia.
Ma la mancanza di chiarezza e l’assenza di qualunque legge sulla rinuncia di un papa lascia prevedere una ridda di voci, più o meno strumentali, sulla possibilità che accada; o addirittura spinte tese a condizionare le scelte papali in questa coda del suo pontificato. Significherebbe assistere a una stagione di turbolenza e di confusione, di fatto di instabilità. E rimpiangere addirittura l’anomalia nella quale la Chiesa cattolica è stata immersa per un decennio. C’è chi ipotizza un congelamento degli equilibri vaticani di oggi, per evitare un aumento dei conflitti.
La sensazione è che lo status quo, però, sia impossibile. Per papa Francesco, comincia una fase di «normalità» che potrebbe rivelarsi più complicata di quella anomala con la quale è stato costretto a convivere finora.
Eppure, per paradosso c’è qualcosa che può rendere verosimile una riflessione così contraddittoria. Il fatto che Benedetto abbia accompagnato l’intero pontificato di Francesco ha creato una sorta di abitudine all’idea dei «due papi», tale da far ritenere necessaria una ridefinizione dell’agenda e dell’approccio dell’attuale. Di colpo, si ha l’impressione che l’uomo del Monastero in questi anni abbia stabilizzato e non messo in tensione l’inquilino di Casa Santa Marta. Ha rappresentato un argine contro la pressione degli ambienti tradizionalisti più irriducibili, ostili a Bergoglio.
Forse ha anche permesso a quest’ultimo di frenare in modo simmetrico le spinte delle frange radicali, che vorrebbero riforme più dirompenti. C’è stato un patto tacito tra predecessore e successore, per evitare sbandamenti nell’una e nell’altra direzione, in nome dell’unità della Chiesa: accordo che le rispettive «tifoserie», per motivi più di potere che teologici, hanno visto sempre come un ingombro. Il rischio che, saltato il diaframma di Benedetto, lo scontro nei palazzi vaticani e negli episcopati si inasprisca, finendo per scaricarsi su Francesco, non va escluso, né sottovalutato.
In questi anni anomali, le tensioni sono state forti, e a intermittenza sotterranee, plateali, contenute. Ma che le divisioni interne rimangano forti, e che l’avversione nei confronti di Francesco e del suo governo del Vaticano sia cresciuta a dispetto di una narrativa edulcorata e di comodo, è indubbio. Con un’ulteriore incognita da sottolineare. Si è sempre detto che il papa argentino «non poteva» dimettersi fino a che Benedetto fosse stato vivo. Ma in via di principio, l’ipotesi di una rinuncia compiuta anche da lui ha sempre aleggiato. Lo stesso Bergoglio non ha escluso l’eventualità.
E questo mentre in quasi dieci anni nessuno ha avuto il coraggio o la forza di porre il problema di cosa succede nel caso di «dimissioni» di un pontefice: non esiste regola in proposito. La prospettiva è dunque quella di un’incertezza destinata a ristagnare; e di una moltiplicazione delle manovre in vista di un prossimo Conclave, che alcuni considerano prossimo contando o temendo un nuovo gesto «alla Ratzinger». Non si conoscono le intenzioni di Francesco, come erano ignote nel febbraio del 2013 quelle di Benedetto, tranne che a una ristrettissima cerchia.
Ma la mancanza di chiarezza e l’assenza di qualunque legge sulla rinuncia di un papa lascia prevedere una ridda di voci, più o meno strumentali, sulla possibilità che accada; o addirittura spinte tese a condizionare le scelte papali in questa coda del suo pontificato. Significherebbe assistere a una stagione di turbolenza e di confusione, di fatto di instabilità. E rimpiangere addirittura l’anomalia nella quale la Chiesa cattolica è stata immersa per un decennio. C’è chi ipotizza un congelamento degli equilibri vaticani di oggi, per evitare un aumento dei conflitti.
La sensazione è che lo status quo, però, sia impossibile. Per papa Francesco, comincia una fase di «normalità» che potrebbe rivelarsi più complicata di quella anomala con la quale è stato costretto a convivere finora.