19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Mauro Magatti

Se si vuole evitare una pericolosa oscillazione tra fondamentalismo e tecnocrazia occorre costruire una capacità di agire per creare condizioni di prosperità


Una delle possibili interpretazioni della crisi che stiamo attraversando è che, con la fase storica che abbiamo chiamato globalizzazione, siamo entrati in una società che non si fonda più né sulla religione né sulla politica, ma sulla tecnica.
Nel corso del ‘900 — e in modo sempre più evidente nella sua ultima parte — la tecnica è diventata un sistema integrato su scala planetaria, fatto di infrastrutture e conoscenze, apparati e procedure, mercati e burocrazie, indispensabile per organizzare la vita di miliardi di singoli individui.
Questa rivoluzione, destinata a proseguire nei prossimi anni, tende a mettere in crisi tanto la religione quanto la politica. La prima perché si trova messa in discussione da una concezione del mondo puramente immanente. La seconda perché si vede privata della sovranità — cioè del potere di decisione — su cui fonda la propria autorità.
Un cambiamento così profondo ci costringe a ripensare l’asse conservatorismo-progressismo cui siamo abituati a fare riferimento. Da una parte abbiamo la degenerazione del conservatorismo che tende a trasformarsi in fondamentalismo, più o meno ammantato di populismo. A parte la questione islamica, il caso dell’America di Trump — che fa dell’alleanza con gli evangelici più estremisti un pilastro della propria presidenza — è esemplare: si tratta di fare argine al dominio di una tecnica puramente autoreferenziale intrecciando su basi nuove politica e religione. Un disegno perseguito sfruttando il rancore provocato dalla incapacità del sistema di mantenere — cioè, far avere a tutti — quello che promette.
Dall’altra parte abbiamo la degenerazione del progressismo che tende a identificarsi con l’ideale di una società perfettamente orizzontale, fatta di infinite libertà individuali che dovrebbero potersi muovere in un ipotetico spazio cosmopolitico, privo tanto di tradizioni e identità quanto di tensioni e contraddizioni. Il progressismo si trasforma così inavvertitamente in tecnocrazia, diventando incapace di sentire ragioni che non abbiano a che fare con la combinazione tra i sistemi tecnici avanzati (visti come un mix di Stato e mercato) e il singolo «io». Una fascinazione che oggi colpisce quello che rimane di una sinistra sempre più intellettualistica e sempre più legata ai principali centri di potere.
Con la degenerazione del conservatorismo e del progressismo, l’azione politica tende a restare prigioniera di una pericolosa oscillazione tra fondamentalismo e tecnocrazia. Ma come si può pensare, allora, la politica nella società tecnica?
Un caso su cui riflettere é quello che viene dalla Germania di Angela Merkel. La leader tedesca, figlia di un pastore protestante, ha raccolto l’eredità di Helmut Kohl e da tre legislature sta lavorando alla costruzione di un progetto che vede la Germania come il perno fondamentale di un’Europa che affronta il mondo con le carte in ordine dal punto di vista dell’efficienza tecnica, della integrazione sociale e di alcuni riferimenti etico-valoriali. Un progetto propriamente «politico» che la Germania riesce a perseguire sfruttando la propria tradizionale capacità di «fare squadra». Attitudine che la Merkel incarna perfettamente: più che una leader trascinante, la cancelliera tedesca è il perno che tiene insieme e fa girare la società tedesca.
Ed è qui che sta il punto: perché oggi la politica — se vuole evitare l’oscillazione tra fondamentalismo e tecnocrazia — può esistere solo se, rapportandosi al sistema tecnico planetario, è capace di costruire, nei limiti di identità culturali (e religiose) ben definite, una propria capacità di azione che consiste, poi, nella creazione delle condizioni per la prosperità delle comunità umane che vivono in un dato territorio.
Per ritornare all’espressione di Carl Schmitt — che associava la tecnica al mare — la politica oggi deve lavorare per costruire «terra umana». Uno dei significati etimologici del termine «nomos» (legge) — oltre a «conquista» e «spartizione» — è «coltivazione». Nel mare della tecnica, la terra «emerge» là dove si rende di nuovo possibile la vita umana associata, mettendo la tecnica al servizio dei suoi abitanti. In rapporto al mondo. Ma affinché ciò sia possibile, sono richiesti impegno, dedizione, investimento: anche oggi, per portare frutto, la terra va lavorata e curata. È questo il «nomos della terra» nell’era del mare tecnico: una terra umana esiste solo laddove vengono create le condizioni che la definiscono — facendola emergere — in rapporto a ciò che le sta attorno. Così — come è sempre più evidente in questi anni di crisi — quanto più ci perdiamo nel nuovo mare tecnico, tanto più la «terra» torna a essere protagonista, anche se in modo ben diverso rispetto al passato. Se, infatti, non si dà «terra» senza emersione, al tempo stesso nessuna terra può vivere indipendentemente dal mare che, fuor di metafora, è oggi il sistema tecnico planetario, con i suoi codici, i suoi linguaggi, i suoi standard.

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