23 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Marco Imariso

Anche se non lo ammetteranno mai, sulla base del rapporto con Grillo i capi No Tav avevano fatto una deroga alla loro neutralità. Erano stati illusi e si sono fidati

 

«Adesso non abbiamo quella forza che nei vecchi giorni muoveva terra e cielo/ciò che siamo, siamo/Resi deboli dal tempo e dal destino/Ma forti nella volontà di lottare, di cercare, di trovare, e di non cedere». Negli anni tra il 2005 e il 2010 alle manifestazioni No Tav si vedeva sempre questo ragazzo, con gli occhiali tondi, il giaccone da marinaio, e un sorriso enigmatico, che teneva ben alto un cartello sul quale erano scritti i versi dell’Ulysse di Alfred Tennyson. Nella primavera del 2011 cominciò la stagione della «resistenza attiva». Ci fu l’idea della Libera repubblica della Maddalena, tanto suggestiva quanto senza via d’uscita. Furono mesi di attacchi continui all’erigendo cantiere di Chiomonte e alle forze dell’ordine, in una spirale di autoreferenzialità secondo la quale per far parlare di sé bisognava essere violenti. Il ragazzo della poesia sparì, o almeno lo perdemmo di vista, tra lacrimogeni e bombe carta. Ma quella strofa diceva molto dello spirito del movimento No Tav originario, non dei suoi filamenti più o meno anarchici. Non di quel biennio 2011-2013 dove l’unica moneta spesa sul tavolo del dibattito fu lo scontro frontale, con la compiacenza di amministratori locali tra i quali figura chi oggi straparla accusando di istigazione a delinquere il premier Giuseppe Conte. Basta aver assistito a una delle tante assemblee popolari, affollate di vecchi e giovani in buona fede, per capire che ridurre ora la disillusione del movimento No Tav a una minaccia per l’ordine pubblico sarebbe ingiusto. La sua storia comincia con un tradimento da parte della politica, e sembra finire nello stesso modo. Negli anni Ottanta fu il Pci, che dapprima si schierò con i comitati contrari all’autostrada del Frejus, per poi lasciarli soli, spedendo invece suoi uomini fidati nei posti chiave della nascitura società della A32, una usanza giunta fino ai giorni nostri. Il Movimento 5 Stelle ha fatto di peggio. Ha assicurato e garantito, ridando fiato e offrendo sponde a un movimento che tra il 2013 e il 2018 stava perdendo consistenza, alle prese con un ricambio generazionale non compiuto. Anche se non lo ammetteranno mai, sulla base del rapporto personale con Beppe Grillo i capi No Tav avevano fatto una deroga alla loro neutralità. Erano stati illusi di potercela fare, e si sono fidati, quando tutto suggeriva invece una conclusione di segno opposto. Il voltafaccia del M5S governativo di Luigi Di Maio non è dovuto solo a una tardiva presa d’atto della realtà, ma anche alla caratteristica di partito ormai meridionale. I suoi elettori della Val di Susa erano spendibili, e sono stati spesi, con una sottile opera di riduzione della Tav a questione locale, messa in atto nei mesi scorsi dagli stessi vertici di M5S che spergiuravano sul fatto che l’opera non andava fatta in quanto contraria agli interessi nazionali. Al netto di proteste annunciate che comunque non porteranno in valle le folle di qualche anno fa, la fase finale della Tav non è solo più un problema di ordine pubblico. Ci sarebbe anche una questione morale, neppure troppo piccola.

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