22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Angelo Panebianco

L’antiparlamentarismo fa presa su molti, ma sono di meno di quanto si ipotizzasse


La matematica è sempre stata la cenerentola delle materie scolastiche in Italia. Una fra le tante conseguenze negative è che molti adulti che animano la vita pubblica sembrano pensare che i numeri siano irrilevanti, che non sia affatto detto che due più due faccia sempre quattro. I 5 Stelle sono andati malissimo nelle elezioni regionali e locali? Il Pd, ossia Zingaretti, se l’è invece cavata bene? Ecco allora che il Pd può dominare il governo e imporre ai 5 Stelle la propria agenda. Peccato che i numeri, almeno fin quando durerà l’attuale legislatura, dicano il contrario: i 5 Stelle, spaccati al loro interno quanto si vuole, restano il partito di maggioranza relativa e il Pd è la ruota più piccola del carro governativo. Credere che questo non conti, tanto nel Consiglio dei ministri quanto nelle commissioni e nelle aule parlamentari, credere che ciò che pensano coloro che fanno parte del partito di maggioranza relativa non pesi di più — si tratti, ad esempio, di uso dei fondi europei o di politica giudiziaria — di ciò che pensano i membri del partito più piccolo, rivelano incomprensione dell’importanza dei numeri. Anche quando si giudica il risultato del referendum sul taglio dei parlamentari è necessario tenere conto dei numeri e saperli interpretare. Beppe Grillo li ha interpretati correttamente. Ha rilanciato il suo ben noto credo antiparlamentare. Grillo ha capito che una parte cospicua , probabilmente maggioritaria, dei «sì» al taglio di deputati e senatori era il frutto di una diffusa avversione alla democrazia parlamentare. Proprio ciò su cui i proponenti del referendum avevano scommesso.
Naturalmente, il risultato del referendum dice solo che l’antiparlamentarismo fa presa su una parte ampia dei nostri connazionali. Non dice che essi siano in maggioranza. Anzi, la sorpresa è che costoro sono meno numerosi di quanto si potesse ipotizzare alla vigilia del referendum. Sia perché la percentuale di votanti ha superato di poco il cinquanta per cento, sia perché per ottenere il numero degli antiparlamentari duri e puri dalla somma dei «sì» occorre sottrarre la quota (probabilmente di minoranza ma certamente presente) di coloro che hanno votato «sì» per le ragioni egregiamente spiegate su questo giornale da Antonio Polito (Corriere del primo e del 24 settembre), perché pensavano che questa sforbiciata servisse a migliorare il nostro sistema parlamentare e perché non volevano lasciarne il monopolio agli antiparlamentari.
Ciò che questo referendum rivela, in realtà , è la condizione di stallo in cui ci troviamo. Per lo meno quando si parla di Costituzione, l’Italia sembra divisa in quattro gruppi di forza più o meno equivalente.
Il primo gruppo è composto dagli indifferenti, i disinteressati al problema, quelli che non hanno votato in alcuno dei tre ultimi referendum costituzionali: del 2006 ( riforma Berlusconi), del 2016 (riforma Renzi), del 2020 (riforma 5 Stelle).
Il secondo gruppo è quello degli antiparlamentari: più che disponibili ad aprire il Parlamento come se fosse una scatoletta di tonno, a colpire l’odiata casta di deputati e senatori, per nulla interessati a migliorare la funzionalità del sistema parlamentare. Come per tutti i rivoluzionari , per gli antiparlamentari vale il principio del «tanto peggio, tanto meglio»: tanto più si rivela inefficiente il Parlamento e tanto meglio è per la causa antiparlamentare.
l terzo gruppo è composto daiconservatori, i fautori dell’intangibilità della Costituzione. Per loro, è la più bella del mondo e qualunque progetto di riforma costituzionale odora di fascismo. Non c’è dubbio che una parte dei «no» anche in quest’ ultimo referendum sia stata espressa dai conservatori. Antiparlamentari e conservatori possono formare insieme, occasionalmente, una maggioranza di blocco quando si scontrano con il quarto e ultimo gruppo.
L’ultimo gruppo è quello dei riformatori, è composto da coloro che vorrebbero riformare la Costituzione migliorando la funzionalità del sistema parlamentare. In questo referendum, plausibilmente, gli appartenenti a questo gruppo si sono equamente divisi fra il «sì», il «no» e l’astensione. Nel complesso, si tratta di un gruppo numeroso ma non maggioritario.
La divisione dell’elettorato in quattro gruppi di forza equivalente spiega perché sia illusorio immaginare che la vittoria del «sì» sul taglio dei parlamentari possa essere usato per favorire altre (e più sensate) riforme. Non è possibile per il fatto che la maggioranza di questi «sì» non è riciclabile, non è spendibile in chiave riformatrice. Come ha perfettamente capito il «rivoluzionario» Grillo.
Retorica e coazione a ripetere sono caratteristiche ineliminabili della politica italiana. Quando non si hanno idee, quando non si sa che cosa dire, si dichiara solennemente che «è arrivata la stagione delle riforme». L’idea (non necessariamente sbagliata) è che coloro ai cui ci si rivolge — gli elettori, o molti di loro — siano immemori del passato, non si ricordino di quante volte la suddetta stucchevole frase sia stata ripetuta nell’ultimo trentennio. Ma è solo retorica e coazione a ripetere. Si (ri)parla di riforme costituzionali e intanto si pensa a come fare una controriforma elettorale (ossia, a come tornare definitivamente al vecchio sistema proporzionale). Al netto di tutti gli errori che commise allora Matteo Renzi, al netto della volontà di tanti elettori di colpire lui più che il suo progetto di riforma costituzionale, resta che al più organico tentativo di rinnovare il sistema parlamentare, nel referendum del 2016, il sessanta per cento dei votanti disse «no». Non è proprio il caso di fare finta che i numeri non contino.

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