Fonte: Corriere della Sera
di Ernesto Galli della Loggia
Forse è giunta l’ora di Milano: l’ora di contare nella politica italiana. Dove, si sa, Milano non ha mai avuto un ruolo importante, pari almeno alla sua importanza in tanti altri ambiti. Tutta compresa e identificata nel suo preminente ruolo di rappresentante per eccellenza della tradizione municipalistica italiana, del suo orgoglio e delle sue rivendicazioni, del suo sapere fare e saper fare «da sola», proprio per questo essa ha sempre alimentato un punto di vista più o meno apertamente polemico verso la politica nazionale e il luogo simbolo di questa, verso Roma. Rispetto alla quale Milano ha costantemente voluto mantenere una contrapposizione carica di mille umori e di mille ragioni. Egualmente per questo essa è sempre stata il cuore della «questione settentrionale», che in contrappunto e insieme con l’altra, quella «meridionale», valgono a sottolineare la permanente difficoltà della Penisola di essere un solo Paese. È Milano insomma la vera capitale storica dell’antipolitica italiana. Non a caso essa ha puntualmente dato il via a tutte le «rivoluzioni» contro il potere «romano». Da quella di fine ’800, a stento domata dai cannoni di Bava Beccaris, a quella del «maggio radioso» e dei «fasci di combattimento» del 1919, che aprì la via al fascismo, a quella del «vento del Nord» del Cln nell’aprile ’45, a quella di Mani Pulite e di Berlusconi da cui ha preso avvio la pseudo Seconda Repubblica.
Anche se poi, come è ovvio, giunte a Roma e istituzionalizzatesi, ognuna di queste «rivoluzioni» ha puntualmente tradito le attese. Si è trasformata in qualcosa d’altro divenendo anch’essa, inevitabilmente, «romana» e «politica». Stando così le cose, sarebbe stato lecito credere che in occasione delle ultime elezioni amministrative Milano potesse diventare una roccaforte del movimento di Grillo. Così non è stato invece. È stato anzi l’opposto: i 5 Stelle hanno avuto qui uno dei loro peggiori risultati. Contrariamente a ciò che in tanti hanno detto la cosa non si spiega però, a me pare, con una generica «buona qualità» dei candidati, bensì con un altro dato. E cioè con il fatto che in un certo senso sia Sala che Parisi rappresentavano già essi, con la loro storia, l’antipolitica. Con la loro storia per l’appunto: cioè un’«antipolitica» diciamo così biografica, di vocazione, di mentalità e di ruoli ricoperti, dunque non ideologica, non contrapposta in linea di principio alla «politica». Parisi e Sala hanno rappresentato, rappresentano, diciamo così, il massimo tasso di antipolitica istituzionale che il sistema può permettersi. Ma sufficiente a sbarrare il passo all’antipolitica anti istituzionale. Non a caso a Milano, e solo a Milano.
Precisamente per questo oggi è da Milano e solo da Milano che il sistema politico — dirò meglio: Forza Italia e il Pd, i due principali partiti che con tale sistema s’identificano storicamente — potrebbe ripartire, per riguadagnare un po’ di credibilità di fronte alla marea montante della delegittimazione grillina. Mettendo in campo, per l’appunto, quella massima dose di antipolitica che esso è stato in grado di esprimere dal suo interno. Che nel panorama desertico della Destra o del centrodestra che sia, una personalità come quella di Parisi sia oggi l’unica in grado di proporre credibilmente qualcosa, di esprimere in modo convincente e con tratti accattivanti di normalità scevra di stucchevole professionismo politico, una linea di civile alternativa alla Sinistra, dovrebbe essere evidente a chiunque. Così come mi sembra indubbio che se domani, mettiamo, Matteo Renzi chiamasse, chessò, alla vicepresidenza del Consiglio Giuliano Pisapia (cioè il vero vincitore del ballottaggio di dieci giorni fa: sarebbe bastata infatti una sua sola parola critica e Sala sarebbe finito nella polvere), mi sembra indubbio, dicevo, che una simile mossa collocherebbe immediatamente lo stesso Renzi in una posizione politica del tutto nuova, lo tirerebbe fuori dall’angolo in cui virtualmente oggi si trova, lo riequilibrerebbe a sinistra pur senza nulla concedere alla moribonda oligarchia della «Ditta», insomma gli darebbe quell’immagine e quello slancio nuovi di cui egli ha assolutamente bisogno.
Questo vuol dire l’ora di Milano. Uomini nuovi, nuovi stili umani e pubblici. Di personalità formatesi fuori dalla politica anche se non certo contro di essa, espressione dell’antipolitica assai più nelle forme che nella sostanza — sostanza che peraltro, non bisogna mai dimenticarlo, è affatto inconsistente: non è forse anche l’antipolitica una posizione politica, come proprio i 5 Stelle dimostrano? —. Ma in politica le forme contano eccome, così come conta la capacità dei singoli di esserne una rappresentazione adeguata. Anche perché molto spesso capita che le forme si accompagnino a dei contenuti, e alla fine è sui contenuti che anche in politica si vincono o si perdono le battaglie. Ma ci vuole chi lo capisca. Qualcuno che capisca che ormai con le querule interruzioni televisive specialità dell’onorevole Brunetta, o con le chiacchiere edificanti dei vari Andrea Romano o Pina Picierno non si va da nessuna parte.