20 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Gian Antonio Stella

Ma se questa, come viene ripetuto tutti i giorni, è la più grave catastrofe umana, sociale ed economica degli ultimi tre quarti di secolo, non val la pena di dare finalmente una brusca sterzata al modo ormai indifendibile di fare le leggi


«Provvedimenti per la riforma delle Amministrazioni dello Stato, la semplificazione dei servizi e la riduzione del personale». Sono passati novantanove anni dal giugno 1921 in cui l’allora ministro del tesoro Ivanoe Bonomi presentò un suo progetto per cambiare la burocrazia italiana. Novantanove. Eppure lo stesso titolo di quella lontana legge pare scritto ieri mattina. Non perché fosse spericolatamente futurista allora: perché è stravecchio il linguaggio burocratico di oggi.

La bozza del «Decreto-legge recante disposizioni urgenti per il sostegno alla liquidità delle imprese e all’esportazione» dice tutto. Le migliori intenzioni, le più generose aperture, i più volenterosi obiettivi, rischiano infatti di impantanarsi in un testo che si srotola per cento pagine in 37.157 parole. Il quadruplo di quelle usate dai padri costituenti per la nostra Carta. Sinceramente: tutte parole indispensabili?

Un metro più in là del confine, in Svizzera, il modulo che un imprenditore deve riempire per avere un prestito pari a un decimo del fatturato 2019 a interessi zero fino a 500.000 euro, credito da restituire entro cinque anni, consiste in una pagina. Una. Una pagina che chiede una dozzina di dati dell’impresa (nome, indirizzo, numero di dipendenti, iban, telefono, cifra d’affari, email…) ed elenca due manciate di condizioni contrattuali. Tipo quella che chi chiede soldi non può avere in corso una procedura di fallimento. Seguono luogo, data e firma. Fine. Tutto facile. Come di facile lettura, spiegata con chiarezza sul Web, è l’intera legge su questi «crediti transitori». Breve. Asciutta. Alla portata di tutti.
Il commercialista Massimo Antognini di Lugano, chiuso a riccio sui nomi dei clienti, racconta di un impresario che, messo in crisi dalla paralisi imposta intorno dal Covid-19, aveva chiesto 110.000 franchi svizzeri. Domanda inviata via e-mail alle tre e mezzo del pomeriggio. Soldi in banca alle sette di sera. Stupefacente. Il Corriere del Ticino, scrivendo di «una pioggia di richieste» e di una vera e propria gara tra le banche a chi batteva i record, ha raccolto un’altra testimonianza: «Ho chiamato in banca il mio consulente giovedì mattina alle 9.30 e alle 10.30 avevo la liquidità sul conto». Reazione istantanea degli italiani affogati nelle scartoffie: così si fa!
Il punto è che questa efficienza svizzera non è figlia di questa emergenza. O di un’improvvisa accelerazione imposta dalla catastrofe sanitaria, economica e sociale del coronavirus. E invocare un istantaneo copia-incolla della «ricetta» elvetica per le nostre banche, i nostri uffici pubblici, le nostre anagrafi tributarie non ha senso. È una tigre buona da cavalcare per arrivare alla pancia degli italiani? Può darsi. Dietro miracoli come questi di cui parliamo, però, non ci sono roghi di scatoloni date alle fiamme (ricordate il «Nerone Day» di Roberto Calderoli? «Oggi abbiamo bruciato 375.000 leggi inutili!») o tante sparate populiste di destra e di sinistra. Men che processi legislativi stravolti da decine di migliaia di emendamenti in larga parte dispettosi. Ci sono scelte nette e buone pratiche quotidiane e semplificazioni che altri Paesi hanno fatto da decenni e noi abbiamo per decenni rinviato. Lo Stato si fida dei cittadini. Ma i cittadini non devono permettersi di tradire questa fiducia.
Quel modulo svizzero oggi agognato, ad esempio, contiene in neretto, perché si conficchi bene nella testa dei cittadini, il seguente avvertimento: «Il mutuatario prende nota che fornendo informazioni false o incomplete si rende perseguibile penalmente per frode (art. 146 codice penale) o per falsità in documenti (art. 251 codice penale)». Parole che tanti italiani, dopo anni di sentenze sciaguratamente bonarie sulle autodichiarazioni false e processi evaporati nel nulla, prenderebbero alla leggera. Gli svizzeri no. Sanno che i controlli sul fatturato precedente in base al quale si chiedono gli aiuti di oggi per il coronavirus, ad esempio, sono fatti all’istante. Sulla base di dati di cui lo Stato è già in possesso. Se dichiari il falso la paghi cara. Carissima.
Di fondo però, nella nostra difficoltà di essere all’altezza di un mondo così diverso da prima, c’è soprattutto lo strascico di una cattiva burocrazia (c’è anche quella buona, ovvio: l’abbiamo vista al lavoro anche in queste settimane) che troppo spesso è apparsa negli anni simile a quella descritta da Honoré de Balzac ne Gli impiegati: «Rimanevano o arrivavano solo pigri, incapaci o imbecilli. Così, lentamente si radicò la mediocrità nell’amministrazione. (…) Interamente composta di spiriti meschini, la Burocrazia ostacolava la prosperità del Paese» e «ormai padrona del campo, controllava tutti e teneva al guinzaglio gli stessi ministri. E soffocava quegli uomini di talento tanto arditi da voler camminare senza di lei…»
Per dirla con Giovanni Maria Flick, già ministro della giustizia e presidente emerito della Corte Istituzionale: «Abbiamo ormai la vocazione intrinseca nel rendere difficili le cose facili attraverso le cose inutili». Nel solco di quella scelta precisa descritta da Max Weber: «Ogni burocrazia si adopera per rafforzare la superiorità della sua posizione mantenendo segrete le sue informazioni e le sue intenzioni». Una legge semplice non va bene: non può essere «interpretata».
Ma può permettersi, l’Italia, di affrontare i problemi trascinandosi dietro la zavorra di un ammasso di regole paragonabili secondo Sabino Cassese a «un sacco di ossa buttate alla rinfusa»? Una specie di giacimento di tibie, stinchi, malleoli e femori che a volte provengono dal Giurassico normativo come, nella bozza di oggi, un surreale rimando a un articolo «126-quinquiesdecies del decreto legislativo 1° settembre 1993»?
Ma se questa, come viene ripetuto tutti i giorni, è la più grave catastrofe umana, sociale ed economica degli ultimi tre quarti di secolo, non val la pena di dare finalmente una brusca sterzata al modo ormai indifendibile di fare le leggi? Se perfino i massimi esperti di varie materie sono arrivati a denunciare nelle aule parlamentari norme «assolutamente illeggibili anche per gli studiosi», come successe a Pietro Ichino quando sfidò i colleghi del Senato a sostenere di «aver capito una sola parola» del tema in discussione, non è questo il momento per marcare una svolta? Se non adesso, quando? Purché non finisca con la creazione di una nuova commissione di saggi. Troppe volte, ammicca amaro Flick, «le commissioni di saggi sfociano in seggi».

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