16 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Dario Di Vico


Gli scenari più pessimistici purtroppo sembrano avverarsi. Il fallimento del vertice di ieri tra governo e ArcelorMittal rende ancora più probabile la chiusura o un drastico ridimensionamento della più grande acciaieria d’Europa. Gli effetti sull’economia meridionale sono stati sottolineati dalla Svimez nei giorni scorsi, una perdita che toglierebbe al Sud circa l’1% del suo Pil annuo. Minore attenzione è stata riservata alle conseguenze sul sistema industriale italiano, già alle prese con una congiuntura negativa e alcuni difetti strutturali di funzionamento. Oggi la nostra bilancia commerciale siderurgica è in deficit per circa 3 miliardi di euro, dopo un’eventuale chiusura di Taranto passeremmo di botto a 8 miliardi. Le aziende che utilizzano l’acciaio pugliese sono produttori di auto, di elettrodomestici, di tubi e persino imprese di costruzioni, che a quel punto dovrebbero rivolgersi all’estero e in special modo ai produttori asiatici (cinesi ma anche coreani e giapponesi). Li renderemmo felici, vista la crisi di domanda che imperversa nel business del ferro, ma dovremmo fare i conti con problemi enormi nell’allungamento e nella rigidità dei tempi di consegna delle forniture e nelle modalità di pagamento. Che in questi casi non prevedono le dilazioni offerte dall’Ilva ma transazioni di fatto regolate dal cash. Dover pagare sull’unghia e non poter programmare le produzioni significa per una buona parte del sistema industriale del Nord fare i conti con una discontinuità negativa capace di compromettere le performance di molte aziende utilizzatrici di acciai piani. Se pensiamo che oltre allo choc Ilva c’è sullo sfondo la grande tempesta causata dalle difficoltà dell’industria dell’auto tedesca (di cui siamo grandi fornitori) il quadro si riempie di tinte fosche.
È difficile, invece, calcolare l’impatto del No Ilva sul Pil nazionale, si può pensare però che quella leggera risalita dalla stagnazione prevista dal governo e dai centri di ricerca indipendenti per il 2020 potrebbe essere compromessa o ridotta nella sua consistenza. I pessimisti temono addirittura che potrebbe venire compromesso quel secondo posto italiano nella classifica manifatturiera europea dietro ai tedeschi e (ancora) davanti ai francesi che citiamo, a nostra consolazione, quasi tutti i giorni dell’anno. Al di là però di graduatorie, distintivi e orgoglio nazionale ferito, le considerazioni sistemiche di cui sopra ci suggeriscono una considerazione di fondo: Ilva sì, Ilva no è questione che riguarda il peso e il funzionamento dell’industria italiana, non può essere derubricata a problema di un territorio o di un settore. I paragoni sono sempre difficili e pieni di insidie ma non si può dimenticare come la mobilitazione pro-Tav partita da Torino abbia creato nell’intero Paese la giusta consapevolezza di quella battaglia per lo sviluppo e sia servita a spostare gli equilibri dentro la compagine gialloverde che allora governava e spadroneggiava. Mutatis mutandis bisognerebbe costruire attorno al caso Ilva una mobilitazione civile altrettanto larga e incisiva, capace di dialogare con l’opinione pubblica di Taranto e costruire una piattaforma comune in cui legare ambiente e sviluppo. Guardando le forze in campo forse stavolta non servirebbero neanche le madamin, basterebbe che imprese e sindacati non avessero remore.

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