Fonte: Corriere della Sera
di Mario Magatti
Per usare le risorse finanziarie messe a disposizione dall’Unione Europea servirebbe uno Stato efficiente, ma proprio questa condizione è difficile credere che sia soddisfatta
«Houston, abbiamo un problema», la celebre frase usata dal comandante dell’Apollo 13 in avaria descrive perfettamente la situazione nella quale si trova il nostro Paese. Per usare le risorse finanziarie messe a disposizione dalla Unione Europea servirebbe uno Stato giusto e efficiente, in grado di spendere velocemente e bene nel quadro di un progetto di cambiamento fatto di realizzazioni concrete. Ma realisticamente è difficile credere che questa condizione sia soddisfatta. Ci troviamo dunque in un paradosso: per superare gli effetti della pandemia l’Italia deve affidarsi a quel fattore (lo Stato) che è una delle cause del suo declino (precedente al coronavirus).
Se le cose stanno così, il coro di questi ultimi giorni – che invoca uno Stato efficiente quando sappiamo tutti che è proprio questo ciò che non siamo riusciti a costruire – suona stucchevole. E ipocrita. Se lo Stato fosse in grado di fare quello che serve, l’Italia non si troverebbe nella situazione in cui è. Come uscire, dunque, da questa impasse? Provo a fissare alcuni punti fermi.
1. Intervenire sulla macchina dello Stato è una priorità assoluta. Senza sciogliere questo nodo, le migliori intenzioni si riveleranno dolorose illusioni.
2. Questa situazione non è responsabilità del governo Conte. L’inefficienza dello Stato italiano è una questione antica che risale al nodo irrisolto del rapporto tra interessi particolari e interesse collettivo. Una mancata risoluzione che affonda le sue radici lontano nel tempo, nella nostra matrice latino-mediterraneo-cattolica: per quanto possiamo e dobbiamo migliorare, l’Italia non sarà mai né la Francia né la Germania né l’Inghilterra.
3. Ciò non toglie che l’attuale governo abbia delle responsabilità ben precise. Al di là delle questioni storiche, alcune gravi défaillance delle scorse settimane sono apparse intollerabili: i ritardi dell’Inps sulla cassa integrazione e la confusione sulla scuola, prima di tutto. In una situazione come quella in cui ci ritroviamo, le dimissioni non solo permetterebbero un’uscita onorevole – e persino apprezzabile – a chi, per una qualche ventura, si trova a occupare una posizione sproporzionata alle sue competenze. Ma darebbero un segnale «concreto» di voler cambiare per il bene del Paese.
4. Si può ragionevolmente affermare che il problema che abbiamo (l’efficientamento dello Stato) non è risolvibile nel breve termine. Il groviglio è per certi versi inestricabile. Sappiamo però anche che non si può immaginare di reggere l’autunno sulla base delle regole esistenti. L’unica via percorribile è quello di assumersi la responsabilità politica di imprimere un vero e proprio salto qualitativo nel funzionamento della PA. Una sorta di «stato di eccezione amministrativo».
5. Il nodo da sciogliere è la paura. Tutto è bloccato perché nessuno si fida di nessuno. Abbiamo un’amministrazione «difensiva» che, invece di far accadere le cose, ferma tutto preoccupata solo di cautelarsi e di dimostrare di aver eseguito le procedure. Un «eccesso immunitario» che alla fine compromette la stessa capacità di sviluppo del Paese.
6. Il governo sta preparando il decreto «semplificazione». Al di là dell’urgenza, nel testo siano indicati alcuni dei principî su cui si vuole avviare la modernizzazione della PA.
7. Per fortuna non si parte da zero. Ci sono infatti almeno due buone pratiche a cui ispirarsi. La prima è il modello Genova. Il governo non abbia remore a adottare un precedente realizzato da forze di centrodestra. Al di là dell’uso propagandistico fatto da Salvini, la ricostruzione genovese è un simbolo nazionale. La seconda buona pratica – meno nota ma ugualmente efficace – è il «patto per il lavoro» che ha consentito all’Emilia-Romagna di raggiungere (prima del Covid-19) un tasso di disoccupazione inferiore al 4%. Queste due vicende hanno diversi elementi in comune. Organizzativi, prima ancora che giuridici. La definizione precisa non solo del risultato da raggiungere (la ricostruzione del ponte, il tasso di occupazione etc.) ma anche dei tempi di realizzazione.
L’adozione di una logica manageriale che, nel definire i limiti della responsabilità amministrativa, introduca la necessaria flessibilità decisionale: in un mondo complesso, è necessario poter decidere sapendo che si risponde del risultato (fissato e definito) che si raggiunge. La trasparenza e la velocità degli atti. Quello che si fa, chi lo fa, come lo fa devono essere informazioni tracciabili e permettere interazioni rapide. Obiettivo che il digitale rende più raggiungibile. Una chiara responsabilità davanti all’opinione pubblica incarnata in una figura che risponde di quello che si fa e ha l’autorevolezza per intervenire dove serve. A Genova, il sindaco Bucci, in Emilia-Romagna il presidente Bonaccini ci hanno messo la faccia, e questo ha fatto la differenza. Lo «spirito del patto», cioè una logica di coinvolgimento di interessi e competenze diverse, capace di trasformare un’emergenza in un fattore di coesione invece che di divisione.
Su queste basi, il governo ha il dovere di osare. Ci saranno sempre pareri tecnici che sconsiglieranno passi decisi. Ma ci sono momenti in cui politicamente occorre decidere. Prendiamo atto che il Paese legale soffoca quello reale. Che è lo stesso Stato di diritto a finire schiacciato dall’eccesso di legalismo. Che, paradossalmente, non è nemmeno capace di impedire l’illegalità. Proviamo a credere, per una volta, che in Italia – in mezzo ai tanti opportunisti e ai gruppi criminosi – c’è un Paese reale che lavora per il bene proprio e della società. Diamogli spazio. Ci saranno sicuramente errori e distorsioni. Ma almeno saremo vivi, e usciremo da uno stallo che ci spegne.