22 Novembre 2024

Con la risalita dell’inflazione il governo deve tentare di far arrivare più soldi nelle tasche dei contribuenti. Ed è fondamentale rivedere la spesa pubblica, incrementare la crescita ed evitare una recessione

Il mini rialzo deciso ieri dalla Banca centrale europea ci dà almeno due indizi sulla situazione economica che ci apprestiamo a vivere nei prossimi mesi. Entrambi poco rassicuranti quanto chiari e perciò affrontabili. Il primo: l’inflazione preoccupa ancora molto. E alzare i tassi significa usare lo strumento principe per quella che è stata chiamata la tassa più ingiusta che taglia in egual misura (ma con effetti ben diversi) redditi bassi e alti. Il secondo indizio è legato alla misura del rialzo. Procedendo a un aumento dello 0,25% del costo del denaro e non dello 0,50%, che era l’altra ipotesi, si comprende quanto anche a Francoforte, sede dell’istituto centrale, siano preoccupati dei rischi di una possibile recessione. Alzare i tassi significa far pagare di più a famiglie e imprese i prestiti richiesti per investire o consumare: un freno evidente per l’economia.
Le valutazioni e poi le scelte della Bce non sono prive di conseguenze per l’Italia. Che non sono indolori. La cautela con la quale si è mosso il consiglio di Francoforte — è stata la stessa presidente Christine Lagarde a rivelare che alcuni, i cosiddetti falchi, avrebbero voluto un aumento dello 0,50% — , non deve illudere. La decisione del rialzo è arrivata 24 ore dopo il rimbalzo dei prezzi registrati in aprile in Italia e in Europa.
L’inflazione nell’area dell’euro (quella che comprende i Paesi che aderiscono alla moneta comune e sui quali insiste l’azione della Bce) è risalita al 7% dal 6,9 di marzo. In Italia è andata ancora più su: all’8,3% dal 7,6 sempre di marzo. Un dato che per il nostro Paese è arrivato dopo quattro mesi di calo. Un balzo dei prezzi più elevato per quei beni che compongono il «carrello della spesa»: 12,1%, sebbene in calo rispetto al 12,6% di marzo.
Numeri che devono far riflettere. Quelle cifre indicano l’erosione che ogni famiglia è costretta a subire. Ed è evidente come il taglio sia più pesante da sopportare per i redditi più bassi. Il calo dei volumi degli acquisti alimentari e non delle famiglie è arrivato al 5%. Per quanto tempo ancora si potrà sostenere un’inflazione a questi livelli?
È per questo che tentare di far arrivare più soldi nelle tasche dei contribuenti deve essere un obiettivo imprescindibile del governo. Il taglio del cuneo fiscale va in questa direzione. Ma si tratta di una misura temporanea. E comunque pagata attraverso la fiscalità generale, le tasse pagate da tutti i contribuenti.
Riuscire a rendere il taglio del cuneo (che significa ridurre il divario tra quanto viene pagato dall’azienda e quanto riceve in busta paga il lavoratore) di tipo strutturale significa stanziare una cifra che le stime indicano tra i 10 e gli 11 miliardi.
E si arriva al tema delle risorse. Siamo costretti ogni anno a chiedere in prestito centinaia di miliardi per permettere allo Stato di poter continuare a funzionare. Cosa che peraltro in una situazione di tassi in crescita ci costa ogni anno di più perché dobbiamo pagare maggiori interessi a chi ci presta denaro.
In questa situazione, nella maggioranza e, va detto, anche all’opposizione, ogni partito non fa altro che chiedere di spendere di più. E cioè di indebitarci maggiormente. Possibile che quei mille miliardi di spesa pubblica all’anno siano tutti ben impiegati? Che non ci sia nessuno spreco? Stentiamo a crederlo. L’uno per cento di quei mille miliardi significano 10 miliardi.
Ma di revisione della spesa non se ne sente più parlare. Ci limitiamo a guardare con invidia i tedeschi che grazie alla loro parsimonia si permettono di dare aumenti anche del 7% per alcune categorie. In Italia si discute invece se far andare tutti in pensione (senza distinzione alcuna tra lavori più o meno pesanti) purché si siano versati un certo numero di anni di contributi.
Ma c’è di più. Si può apprezzare la cautela della Bce nell’aver rialzato di solo lo 0,25% il costo del denaro. Ma sarebbe miope non leggere in quella prudenza anche la preoccupazione esplicitata ieri dalla Lagarde. «La manifattura frena», ha detto. E questo per la seconda potenza manifatturiera d’Europa, l’Italia, è un altro campanello d’allarme.
È indubbio che sia la crescita, l’evitare una recessione, l’altro imperativo per qualsiasi governo per rendere sostenibile l’indebitamento e trovare le risorse per affrontare le incertezze che potremmo dover fronteggiare. Il motore principale restano gli investimenti.
Con i «significativi rischi al rialzo» dell’inflazione e quindi tassi in crescita, sono le imprese a farsi caute in termini di investimento. Come dimostra il calo del credito alle aziende da parte delle banche.
È per questo che assistere ancora al dibattito sui ritardi del Pnrr, sembra come veder spargere sale sulla ferita. Si dovrebbe uscire dalla genericità. Dire al Paese chi e che cosa sta ritardando i piani di investimento. Quale ministero è indietro, quale ente locale, quale ente di spesa rallenta. E invece dietro un generico «ritardo» del Pnrr in troppi trovano un alibi per non fare.
E il danno è doppio. L’attuazione per quest’anno dei piani di investimento legati al Next generation Eu (mai dimenticare che stiamo lavorando per le prossime generazioni) varrebbe fino al 2% di crescita. Non farlo significherebbe anche non attivare quel circolo virtuoso determinato da uno Stato che investe e dà fiducia chiamando privati e risparmiatori a fare la loro parte, a investire e a consumare per quanto loro possibile.
Ma c’è un ultimo punto. A differenza della Federal Reserve americana, la Bce dispone non solo dello strumento dei tassi per intervenire sull’economia. Ce ne sono anche altri. Che, per bocca della sua presidente Christine Lagarde, ha detto di voler usare. E che avranno conseguenze sul nostro Paese.
Strumenti che negli anni scorsi sono stati di sostegno all’economia (Quantitative easing). Come il riacquisto di titoli di Stato che da 30 miliardi al mese sono passati a 15 e scenderanno a zero da luglio. Si sta discutendo inoltre se riacquistare i titoli di Stato che man mano verranno a scadenza.
Il solo sentir parlare di queste misure ha fatto salire lo spread, vale a dire il differenziale di interessi che l’Italia paga a chi gli presta soldi, rispetto a quanto pagano i tedeschi che ha superato quota 190 punti. Argomenti particolarmente sensibili per chi ha un indebitamento elevato come l’Italia che deve ogni mese ricorrere a emissione di titoli per finanziare la propria spesa pubblica. Alla quale però nessuno finora mostra di voler mettere mano.

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