Tra tremori sul crescente aumentare del debito e paure che i mercati internazionali giochino a svendere i titoli sovrani, non si discute sulle componenti vitali del sistema
Colpisce, in queste settimane di vigilia in vista della stesura della legge di bilancio, che il dibattito sull’economia italiana presenti due congiunte fragilità: da una parte le incertezze finanziarie e dei conti pubblici; dall’altra le incertezze (e la scarsa conoscenza) sulla tenuta dell’economia reale.
I mezzi di informazione sono pieni di tremori sul crescente aumentare del debito; sull’affanno di trovare risorse aggiuntive; sulla prospettiva che l’Europa ci bocci manovre troppo sforanti; sulle paure che i mercati finanziari internazionali giuochino a svendere i titoli sovrani; ed altro ancora. La lettura delle centinaia di pagine riservate a tali vicende è certo non rassicurante, perché le dichiarazioni e le proposte che si rincorrono mancano di un’idea precisa e condivisa di bilancio e di finanza pubblica: non ci si ritrovano né scelte di deficit-spending di ascendenza morotea, né scelte di duro rigore di ascendenza andreattiana. Per qualcosa di più preciso, c’è solo da aspettare e vedere cosa esce dalle centinaia di posizione sul tappeto.
Preoccupa però di più che a tutto ciò si accompagni l’inesistenza di un parallelo dibattito sulla tenuta e sulla consistenza dell’economia reale. Chi ha vissuto l’economia italiana dei decenni precedenti ricorda bene quanto l’opinione pubblica si sia spesso sentita rassicurata di fronte alle voragini della finanza pubblica dalla sensazione che in concreto, nel quotidiano, le cose andavano meno male.
In effetti ricordo personalmente quel che accadde a metà degli anni ’70: i conti erano a livello pessimo, tanto che il governatore di Bankitalia dovette chiedere al governo di non fare attraccare petroliere nei porti italiani perché, letteralmente, «non c’erano i soldi per pagare quel petrolio». Eppure quella drammatica sensazione era contemporanea ad una diffusa coscienza che l’economia reale non solo galleggiava, ma dimostrava una inaspettata potenza delle economie locali, specialmente di quelle dove reagiva l’economia sommersa. E non mi vergogno di aver dichiarato in alcuni workshop che l’avanzo commerciale dei distretti di Prato e Sassuolo era più alto del disavanzo di tutti gli altri settori manifatturieri.
Qualcuno si regalò qualche battuta sul folclorismo di tale valutazione (penso alla sorridente frase con cui l’avvocato Agnelli e il professore Modigliani salutavano il mio arrivo a Cernobbio: «Ecco l’amico degli stracciaroli pratesi»). Ma alla fine fu chiaro che l’economia reale era più forte, e di tanto, rispetto all’economia gestita dai conti pubblici. E via via si affermò una coscienza sommersa della nota vitalità reale. Ma oggi mi domando chi può diffondere altrettanto ottimismo sul destino dell’economia reale, visto che non c’è nessuno che si occupi di capire se e come regga la realtà quotidiana delle imprese e dei tanti localismi cresciuti nel frattempo. Il dibattito è praticamente inesistente, e la maggior parte di coloro che avevano cantato la sommersa vitalità degli anni fra il ’70 e il 2000 si dedicano ad altro, magari a temi più farlocchi ma di moda. La realtà quotidiana delle aree forti finisce per esser frequentata «strusciando i piedi», cioè lentamente e con poca convinzione, quasi lasciando intendere che anche la loro dinamica economica stia strusciando i piedi.
Eppure, per chi ancora gira l’Italia, la realtà dà segnali contrastanti, ma non inerti: il motore milanese e lombardo batte bene i colpi; l’economia del Nord-Est sta superando la crisi di dipendenza dal declino della locomotiva tedesca; l’Emilia Romagna e una parte delle Marche sono piene di soggetti di eccellenza; il turismo toscano, umbro, laziale (romano), pugliese e siciliano ha dimostrato una grande potenza di fuoco. Sarebbe quanto mai utile riservare un po’ di attenzione a queste componenti vitali del sistema: cerchiamo di lasciarle a se stesse, nella pigrizia intellettuale di non affrontare la delicata situazione. Per la tenuta della psicologia collettiva del Paese di fronte ad un inverno che si preannuncia difficile sono più importanti di tante elucubrazioni di finanza pubblica.