24 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Sergio Romano

Tocca alla Commissione e al Parlamento europeo prendere l’iniziativa per affrontare la crisi soprattutto là dove sono le sue origini. Anche con un Piano Marshall per l’Africa


Per molto tempo i governi europei hanno trattato il problema dell’immigrazione con rassegnazione e una buona dose di egoismo nazionale. Sapevamo che l’Africa era diventata un enorme serbatoio di vite umane ansiose di lasciare il loro continente per cercare fortuna in Europa. Sapevamo che le crisi mediorientali avrebbero scaricato sulle nostre coste qualche milione di profughi. Ma ogni Paese cercava soluzioni nazionali e sperava di scaricare il problema sulle spalle degli altri. Il trattato di Dublino, con cui l’ Unione Europea decise che la richiesta di asilo doveva essere indirizzata alle autorità del primo sbarco, è diventato per molti Paesi un alibi perfetto. Quando in Italia sbarcò una prima ondata di tunisini, quasi tutti diretti verso il Paese dove viveva il maggior numero di amici e congiunti, la Francia di Nicolas Sarkozy chiuse la porta di Ventimiglia. La Gran Bretagna era una meta desiderata, ma il governo britannico riuscì a ottenere che le prime pratiche amministrative venissero fatte a Calais piuttosto che a Dover. Quando la Turchia accettò di vendere la propria ospitalità a caro prezzo (quasi sei miliardi di euro in due versamenti) per accogliere due milioni e mezzo di migranti, ci dimenticammo che il Paese di Erdogan non era un modello di democrazia. Non mancarono iniziative che avrebbero giovato all’Europa e avrebbero fatto di Gheddafi il poliziotto del Nord Africa.
Il trattato che Silvio Berlusconi firmò con il leader libico a Bengasi nell’agosto del 2008 era certamente discutibile sotto il profilo umanitario, ma poteva essere migliorato. Non è stato altrettanto possibile, invece, sostituire Gheddafi, quando tre grandi Paesi occidentali (Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti) decisero di abbandonarlo ai suoi nemici e spalancarono ai migranti africani le porte del Mediterraneo. Non mancò nemmeno chi cercò di rendere le migrazioni meno inquietanti ricordando che avrebbero permesso di affrontare meglio la crisi della natalità in alcuni Paesi europei. Fu uno degli argomenti usati dalla cancelliera Merkel quando decise di accogliere 800 mila siriani. L’analisi era giusta, ma anche le cose giuste, quando sono dette nei momenti sbagliati, producono effetti negativi. I profughi giunti nella Repubblica federale nel 2015 sono diventati la palla al piede della cancelliera tedesca nei suoi quotidiani duelli con una forza politica, Alternativa per la Germania, che odora di nazismo.
Questo è il contesto in cui i partiti populisti e sovranisti hanno cominciato a raccogliere e a interpretare gli umori della pubblica opinione. Quanto più ogni Paese si dimostrava privo di una politica efficace, tanto più i sovranisti potevano riempire il vuoto lasciato dai governi e proclamarsi interpreti autorizzati della volontà popolare. Il problema delle migrazioni non è il solo fattore che ha contribuito alla diffusione del populismo. Nel corso dell’ultimo decennio, gli effetti della grande crisi finanziaria del 2008, alcune sgradite ricadute della globalizzazione, le incertezze provocate dalla Brexit e un certo malessere della Commissione di Bruxelles hanno ingrossato la legione populista. Ma niente ha favorito l’ascesa dei sovranisti quanto il problema dell’immigrazione.
Non sembra che i governi abbiano imparato la lezione. Oggi si parla più frequentemente di politica comune e di rafforzamento delle frontiere europee. Ma nella pratica di ogni giorno la reazione al singolo caso è ancora strettamente nazionale. Ne abbiamo avuto una dimostrazione quando all’Aquarius (una nave ben nota alle cronache italiane) e ai suoi 58 migranti è stato impedito lo sbarco a Marsiglia. Non credo che i sovranisti, dopo avere conquistato il potere in alcuni Paesi, cercheranno di trovare insieme una ragionevole soluzione del problema. La paura dei migranti è diventata il terreno su cui è cresciuta la loro pianta e continueranno a innaffiarla probabilmente con una sgradevole e crescente dose di razzismo. Tocca quindi alla Commissione e al Parlamento europeo prendere l’iniziativa per affrontare la crisi soprattutto là dove sono le sue origini. Negli scorsi giorni il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, ha proposto un Piano Marshall per l’Africa. La ricetta è stata usata troppo frequentemente, spesso a sproposito. Ma in questo caso potrebbe finanziare nel continente africano strutture e istituzioni capaci di dare ai giovani in patria il futuro che oggi cercano altrove.

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