Fonte: La Ventisettesima Ora
di Paolo Balduzzi ed Eleonora Voltolina
Come funzionano le quote di genere
Ci sono molti più uomini che donne in politica; vale in tutto il mondo, vale specialmente da noi. Per una variegata serie di ragioni, sperare che la proporzione di uomini e donne in politica si riequilibri da sola è velleitario. Da qualche anno alcuni partiti hanno quindi introdotto volontariamente nei loro statuti meccanismi che hanno lo scopo di limitare, per quanto possibile, lo squilibrio. Nelle ultime tornate elettorali, hanno sortito effetti positivi: per esempio, il parlamento uscente è stato quello con più donne in assoluto. Ora, l’equilibrio di genere è addirittura obbligatorio: la nuova legge elettorale nazionale lo prevede esplicitamente. Ma fatta la legge, trovato l’inganno, come dice il proverbio. La nuova legge prevede infatti che nelle liste dei collegi plurinominali i candidati debbano essere collocati secondo un ordine alternato di genere; che alla Camera nessuno dei due generi possa essere rappresentato in misura superiore al 60 per cento nel totale dei collegi uninominali; e che nessuno dei due generi può occupare la posizione di capolista nei collegi plurinominali in misura superiore al 60 per cento. Al Senato le stesse norme valgono a livello regionale. Questo meccanismo, mischiato da un lato con l’esistenza di collegi elettorali più o meno certi e dall’altro con le candidature multiple, ha dato luogo a una elusione della legge sulle quote rosa.
Il confronto nei collegi uninominali
Per quanto riguarda le candidature nei collegi uninominali alla Camera, ci siamo chiesti se i partiti avessero rispettato le quote di genere solo sulla carta, quindi su base nazionale, o anche per la suddivisione dei collegi sicuri, vale a dire quelli dove la probabilità di vincere per un determinato partito è molto elevata. La “sicurezza” si basa su sondaggi effettuati a ridosso della formazione delle liste: naturalmente non esiste alcuna certezza, ma solo un’alta probabilità. Abbiamo scelto di concentraci su base regionale principalmente per comodità e per completezza di informazione, anche se ci rendiamo conto che all’interno di ogni regione possono coesistere collegi più o meno sicuri di altri. Infine, poiché la regola del 60 per cento dovrebbe valere su base regionale al Senato, questa analisi è interessante solo se limitata alla Camera. I dati sono riportati in tabella 1. Con l’aiuto di Mariasole Lisciandro e Stefano Pallaoro nella raccolta e organizzazione dei dati, abbiamo calcolato la quota di candidature femminili nei collegi uninominali in cui queste regioni sono suddivise: lo spirito della legge è rispettato quando, per un partito, la quota supera il 40 per cento nei collegi di vittoria sicura; altrimenti il sospetto è che il partito stia utilizzando la candidatura femminile solo per coprire collegi dove la sconfitta appare probabile. Analogamente, lo spirito della legge è rispettato qualora la quota di candidature femminili nei collegi dove la sconfitta è sicura sia inferiore al 60 per cento. Come è evidente dalla tabella, il Pd non rispetta mai lo spirito della legge quando i collegi sono di vittoria, con una situazione più equilibrata nei collegi a sconfitta sicura. Anche per Forza Italia (con Lega e Fratelli d’Italia) vale un rispetto formale: solo in Veneto e Lazio si raggiunge quota 40 per cento, mentre negli altri casi sono favorite le candidature maschili (meno squilibrata la situazione nei collegi di sconfitta sicura). Il Movimento 5 Stelle non ha collegi storicamente sicuri, visto che si presenta a elezioni con questa formula per la prima volta: proprio per questo, e forse solo per questo, la situazione alla Camera è fortemente equilibrata, tranne, nemmeno a farlo apposta, in Sardegna, dove i sondaggi sono favorevoli al Movimento e le candidature femminili sono solo 1 su 6.
Il confronto nei collegi plurinominali
Un altro modo per aggirare la norma sulle quote rosa è usare le pluricandidature femminili. Apparentemente sembra vantaggioso, perché garantisce alle candidate più probabilità di essere elette. In realtà, può trasformarsi in un cavallo di Troia: poiché devono necessariamente risultare elette in un solo collegio, in caso di vittoria in più collegi, le donne pluricandidate dovranno lasciare automaticamente il posto a chi le segue nella lista, che per legge, guarda un po’, è un uomo. In questo caso non è molto semplice calcolare il numero dei seggi assegnati al partito. La nostra analisi si limita quindi ai casi di pluricandidature che siano in numero uguale o superiore a 2 (tralasciando quindi tutti i casi 1 + 1, anche se ciò toglie dal confronto il Movimento 5 Stelle). Nella tabella 2 riportiamo due numeri: il secondo è il numero di collegi plurinominali considerati, mentre il primo è il numero di questi collegi in cui è presente una pluricandidata (non per forza come capolista, tuttavia). Indicativamente, benché i dati siano da prendere con cautela e le conclusioni meno nette rispetto al caso precedente, quando i due numeri sono molto vicini significa che il partito potrebbe usare la candidatura di donne come specchietto per le allodole (quando la pluricandidata è anche capolista) o come mero meccanismo per aggirare la regola dell’alternanza di genere (quando la candidata non è capolista), garantendo invece l’elezione a un numero ben più elevato di candidati uomini. Pd e Forza Italia escono male da questo confronto; si salva invece Liberi e Uguali. Il cammino verso la parità e l’equa rappresentanza è ancora lungo. Spiace sempre, però, vedere come a ogni intervento pensato con lo scopo di riequilibrare la situazione corrispondano, più o meno apertamente, azioni volte a depotenziarlo e disinnescarlo, con l’obiettivo di aggirare la novità e perpetuare la situazione precedente.