Fonte: La Repubblica
di Carmelo Lopapa
Cinque presidenti – delle amministrazioni chiamate alle urne – scrivono una lettera al capo dello Stato. Vogliono che si voti a luglio e non il 20 settembre. L’ultima parola al premier Conte
Il tavolo salta quando il governatore campano Vincenzo De Luca alza la voce a nome dei colleghi e incalza la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. “Se il governo insiste sul voto regionale il 20 settembre, noi governatori ci ritiriamo da tutti i tavoli aperti, compreso quello sulle riaperture”. Al suo fianco – in teleconferenza – il veneto Zaia e il ligure Toti e tutti gli altri coinvolti dal rinnovo.
In ballo c’è l’election day, con amministrative, suppletive e referendum sul taglio dei parlamentari. Tocca ancora una volta alla responsabile del Viminale, incaricata da Palazzo Chigi (anche per competenza) a trattare sulla delicatissima partita elettorale, a raccogliere e rimettere insieme i cocci.
La ministra promette di confrontarsi in queste ore col presidente del Consiglio Conte e di far sapere ai governatori. Si apre insomma un canale di dialogo e una trattativa (su settembre). Ma intanto, non cede di un millimetro: ricorda al governatore campano che il decreto che ha prorogato di tre mesi i loro mandati e le legislature regionali era del 20 aprile, che quel giorno in Italia ci sono stati 450 morti, che lo stesso De Luca quel lunedì aveva sollecitato il governo affinché mandasse 300 soldati per far rispettare il lockdown nella sua regione. Insomma, nessuno allora aveva alzato il dito per muovere obiezioni rispetto al rinvio a settembre dell’election day.
Adesso è tutta un’altra storia. I presidenti vogliono, costi quel che costi, che Palazzo Chigi si “rimangi” quel decreto, cancellando la data del 20 settembre che invece l’esecutivo ha già portato avanti ieri anche in commissione Affari Costituzionali della Camera: il decreto approderà oggi in aula. La loro data, cerchiata di rosso, è domenica 26 luglio. Zaia e De Luca i più intransigenti sul voto anticipato che però, decreto alla mano, è appunto ormai impossibile da concedere per via del prolungamento dei mandati di tre mesi. L’unica data di trattativa possibile, da parte del governo, diventa il 20-21 settembre, con ballottaggio il 4-5 ottobre. Qui la rottura.
Inaccettabile per le Regioni, che ieri sera si sono appellate al Quirinale. “Riteniamo inopportuna la fissazione di una data che pregiudichi la riapertura delle scuole”, scrivono in una lettera i presidenti di Veneto, Liguria, Marche, Campania e Puglia esprimendo appunto la loro contrarietà all’ipotesi 20 settembre.
Per i 5 presidenti delle regioni che andranno al voto (non c’è la firma della sola Toscana) “la durata certa degli organi legislativi è un principio fondamentale dello Stato democratico tant’è che la Costituzione stessa prevede tempi certi per la ricostituzione delle Camere e divieto di proroga delle stesse se non in caso di guerra”.
Questo “balletto sulla data è osceno”, protesta in serata il ligure Giovanni Toti: “Come fanno a non capire che andare al voto il 20 settembre vorrebbe dire chiudere le scuole appena riaperte per due settimane e riaprirle a ottobre, con le sanificazioni necessarie tra un turno e l’altro e dopo la chiusura delle urne?” Lo stesso Toti alla fine è meno barricadero dei colleghi e considererebbe accettabile anche il 6 o il 13 di settembre.
Dal Viminale è stato fatto loro notare come l’election day alla fine è solo suggerito ma non è imposto. Ogni regione potrebbe fissare la data a proprio piacimento. Per esempio il 6 settembre appunto (con un provvedimento autonomo da adottare entro il 18 luglio e le candidature da depositare entro il 7-8 agosto). Di certo, però, non prima di allora e niente voto a luglio. Anche perché, sottolineano dal governo, il Comitato tecnico scientifico ha già escluso per ragioni sanitarie l’apertura dei seggi a inizio estate e fino ad agosto. “Non si capisce dove siano i rischi – insiste Toti – dato che dopo il 15 luglio riapre tutto, compresi cinema e teatri”.
È un braccio di ferro complicatissimo, come è evidente. Che non coinvolge solo governo e presidenti di Regione, ma anche i partiti. Il centrodestra, Salvini in testa, è per fine settembre. Anche Forza Italia esclude l’anticipo a inizio estate ma perfino “il 20 settembre è una data sbagliata”, protesta la capogruppo Annamaria Bernini.
Il Pd con Enrico Borghi chiede a Viminale e Regioni di trovare un’intesa di buon senso che contemperi le varie esigenze. L’ultima parola, quasi sicuramente, dovrà pronunciarla il premier Conte.