Fonte: Corriere della Sera
di Paolo Mieli
Con le coalizioni prospettate, l’unico punto su cui potrà esserci accordo è l’abdicazione, in materia di riduzione del debito, ad ogni principio di responsabilità
Su che tipo di combinazione governativa potremo contare dopo le elezioni? Di chiaro, al momento, ci si può appoggiare solo a tre prese d’atto, tutte e tre in negativo. Prima: presumibilmente nessun partito o coalizione conquisterà la maggioranza assoluta dei voti, né quella dei seggi in entrambe le Camere. Seconda: se anche ci riuscisse il Centrodestra (lo schieramento che ha più chance), si tratterebbe di una maggioranza esigua, attraversata per di più da una gigantesca faglia politica e senza un plausibile candidato di Forza Italia (il partito che i sondaggi danno in vantaggio) per la guida dell’esecutivo. Terza: anche in conseguenza di quel che si è detto, neanche uno dei leader indicati sulle schede otterrà l’incarico di formare il governo (e se lo dovesse ricevere, sarà un mandato esplorativo, «di cortesia», talché poi difficilmente riuscirà nell’impresa).
Quindi? L’ipotesi più probabile è che, dopo uno stallo, pur di non tornare immediatamente al voto, si cerchi una soluzione e forse la si trovi in un «governo del Presidente». Ma il governo che dovesse nascere da un incontro tra parte del Centrodestra, Centrosinistra e truppe di transfughi da altri partiti disporrebbe di una maggioranza piuttosto ridotta e, in una situazione del genere, ogni riferimento all’unità nazionale sarebbe alquanto improprio.
Le Grandi Coalizioni (ancorché travestite da governi appunto «del Presidente», «tecnici» o comunque la fantasia ci suggerisca di chiamarli) si realizzano di norma mettendo assieme i due partiti che alle elezioni hanno ottenuto il maggior numero di voti, a cui eventualmente se ne possono aggiungere un terzo e un quarto. Questo per consentire a tali formazioni — in genere quelle che rappresentano la destra e la sinistra — di disporre quanto meno del sessanta per cento dei parlamentari, così da mettere la coalizione stessa al riparo dalle insidie dei voti a scrutinio segreto. Voti su leggi spesso in contrasto con gli impegni assunti nel corso della campagna elettorale dall’uno o l’altro contraente del patto dal momento che i programmi dei governi imperniati su partiti fino a poco tempo prima antagonisti, sono, per loro natura, basati su compromessi e rinunce simmetriche. Ciò che, ad ogni evidenza, può offrire il pretesto per accuse di «tradimento delle promesse elettorali», provenienti oltre che dall’esterno, anche dalla parte più intransigente dei partiti coalizzati. E tali accuse sono destinate a moltiplicarsi anche perché coprono un fisiologico (e assai meno nobile) istinto a rendere instabile la coalizione così da provocare un ininterrotto ricambio ai posti di governo e di comando. Ecco perché le coalizioni devono essere «grandi»: perché quando invece i parlamentari sono in numero tale da consentire il varo del governo con una manciata di voti, cresce a dismisura il potere di ricatto delle minoranze inquiete.
Se poi, come si prospetta, ad essere escluso dalla Grande Coalizione è il partito di maggioranza relativa – caso, nella storia, piuttosto infrequente – i governi rischiano ancor più, dal momento che ai problemi di cui si è detto si aggiunge quello della sofferenza indotta da crisi di legittimazione. Cosa, quest’ultima, da tenere bene a mente: potrebbe darsi, infatti, che alle elezioni successive venga premiato proprio il partito escluso dalla Grande Coalizione se si sarà dedicato nei tempi dell’intera legislatura ad un’ininterrotta campagna elettorale imperniata sulla recriminazione per il proprio mancato inserimento nel governo (a dispetto dell’esser stato il partito più votato dagli elettori). È vero, stando alla Costituzione, questa circostanza non dovrebbe essere neanche presa in considerazione: per guidare i governi il Presidente della Repubblica è tenuto solo a scegliere chi è in grado di coalizzare una maggioranza. Nient’altro. Ma non dovremmo dimenticare che abbiamo alle spalle venticinque anni in cui gli italiani hanno introiettato il mito che sia il corpo elettorale a decidere chi debba andare a Palazzo Chigi (il che, tra l’altro, è , almeno in parte, accaduto). Di conseguenza, dovremmo considerare rischioso provocare un brusco risveglio da un sogno durato un quarto di secolo, per dar vita oltretutto ad un governo dalla maggioranza risicata.
Ma c’è anche uno scenario su cui si sta ragionando. Lo schema differente potrebbe essere che il capo dello Stato avvii le consultazioni, constati l’impossibilità di mettere in piedi una coalizione che abbia i numeri per governare e prospetti, conseguentemente, nuove elezioni. Con l’aggiunta, però, di una «piccola avvertenza»: prima di avviare il Paese ad una seconda consultazione, anche ad evitare di ritrovarci — dopo lo scrutinio dei voti — al punto in cui si era, si imporrebbe di rimetter mano alla legge elettorale. E al partito di maggioranza relativa verrebbe conferito un ruolo di primo piano nel processo per la definizione delle nuove norme in vista del ritorno alle urne. Contemporaneamente, per dare alle Camere il tempo di riuscire in questa non semplice impresa, il Parlamento dovrebbe votare la fiducia ad un gabinetto di «limitatissime ambizioni». Nella fattispecie — se i risultati del 4 marzo fossero più o meno quelli annunciati dai sondaggi — un parlamentare Cinquestelle avrebbe la regia della Commissione per la riforma elettorale e uno appartenente al secondo partito per numero di voti, il Partito democratico, otterrebbe la guida del governo. Con ogni probabilità verrebbe richiamato a Palazzo Chigi l’attuale Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni (mai uscito di scena), che darebbe vita, però, ad un nuovo gabinetto nel quale entrerebbero anche esponenti della Destra e forse del partito di Pietro Grasso. In questo modo il movimento di Luigi Di Maio entrerebbe in possesso delle chiavi per l’accensione e lo spegnimento del motore dell’intera legislatura; in cambio dovrebbe garantire l’astensione o quantomeno un’opposizione morbida al governo e si configurerebbe così una coalizione, questa sì davvero grande, in grado di coinvolgere, in senso lato, anche il partito di Beppe Grillo. Nel caso poi, tutt’altro che improbabile, i Cinquestelle controproponessero un’inversione di ruoli (a loro il governo, agli altri la guida della commissione per rivedere la legge elettorale) si potrebbe optare per un gabinetto politicamente più scolorito a partire dalla figura del presidente del Consiglio.
C’è però una pecca. Essendo questo — o un altro dello stesso genere — lo scenario più plausibile, si può comprendere perché, quando manca poco più di un mese dal giorno del voto, nessun partito (sottolineiamo: nessuno) si senta in dovere di sottoporre ai propri elettori un progetto per avviare l’Italia sulla via dell’abbattimento del debito. Già è consuetudine che in campagna elettorale venga il tempo dei demagoghi, inclini esclusivamente agli annunci di revisione del fiscal compact, di detassazione e di spesa. Per di più con le coalizioni prospettate, l’unico punto su cui potrà esserci accordo unanime — si può esserne certi — è l’abdicazione, in materia di riduzione del debito, ad ogni principio di responsabilità. Grande, piccolo? Anche minimo.