Fonte: Corriere della Sera
di Antonio Polito
Il primo è la fine dell’era del deficit spending, della possibilità cioè di foraggiare stato sociale e consenso popolare con la spesa pubblica, Il secondo è la clamorosa sottovalutazione dello shock culturale che le grandi migrazioni hanno indotto
Matteo Renzi deve render conto agli 1.257.000 elettori che lo scelsero nelle primarie dello scorso anno, e restare alla guida del Pd? O deve rendere conto ai 5.000.000 di elettori che lo hanno lasciato dal 2014 in poi, e fare spazio a una nuova leadership? Noi raccontiamo spesso la politica come scontro di personalità, di ego, di ambizioni personali; ma la politica nei partiti di massa ha radici e cause più profonde.
Anche la gloriosa Spd, nella stessa domenica elettorale, ha dovuto affrontare un dilemma del genere: pensare alla ditta e smettere di versare sangue per la causa della signora Merkel? Oppure pensare alla patria e garantire la nascita di un altro governo Merkel, per evitare nuove e pericolose elezioni? (Nel caso tedesco, come si sa, i militanti hanno deciso che l’interesse del partito coincide con quello della nazione e hanno detto sì; ma la Spd ha 155 anni di storia).
Dietro la querelle sulle dimissioni del segretario Pd si sta dunque svolgendo un dramma molto più grande. Come in Germania, in Francia, in Spagna, nell’Europa del Nord, la sinistra riformista, quella che aderisce al Partito socialista europeo, sta diventando così piccola da non essere più padrone del suo destino. In Italia il processo è stato accentuato dall’emergere nelle urne di una nuova forma di bipolarismo, tra una Destra a trazione leghista e i Cinquestelle, che ha messo il Pd in un angolo: mai nella sua storia, dal 1948 a oggi, la sinistra nel suo complesso si era ristretta così tanto.
In quell’angolo, però, non si può neanche restarsene tranquilli all’opposizione sperando in tempi migliori, come accadeva nella Seconda Repubblica, quando ci si fermava un giro a ricostituire il fisico praticando un po’ di sano antiberlusconismo. Il paradosso è che oggi il Pd non può costituire un governo, ma stando all’opposizione potrebbe non far nascere alcun governo, perché nessuno dei due «vincitori» ha la maggioranza. Detto così dà una vertigine da Ghino di Tacco; ma il rischio vero è che cominci una nuova vita da «terza forza», sul modello dei liberali tedeschi o inglesi. Guai a diventare dunque la stampella dell’uno o dell’altro vincitore; ma per evitarlo bisogna avere una proposta politica all’altezza della situazione eccezionale e capace di superare lo stallo, tentare di recuperare così la centralità perduta nelle urne.
Sono venuti al pettine, come nel resto d’Europa, i due mali oscuri che hanno corroso la sinistra fino a sfibrarla. Il primo è la fine dell’era del deficit spending, della possibilità cioè di foraggiare stato sociale e consenso popolare con la spesa pubblica. Non lo può fare più nessuno in Europa, non lo fa nemmeno la Germania che pure potrebbe permetterselo, figurarsi nell’Italia del debito pubblico record. E, del resto, non è con qualche zero virgola in più strappato a Bruxelles che si potrebbe realizzare il keynesismo in un paese solo. Il secondo male è la clamorosa sottovalutazione dello shock culturale che le grandi migrazioni hanno indotto innanzitutto nel popolo di sinistra, quello degli ultimi che si sentono diventati penultimi, o, come si dice oggi, dei «left behind», dei «forgotten men»; amplificato dalla rivoluzione digitale che azzera mestieri e saperi, lasciando sul terreno una generazione che si era preparata per un tempo che invece è già finito. Ieri Carlo Calenda, iscrivendosi alla direzione del Pd, ha criticato l’«atteggiamento semplicistico/ottimistico» con cui la sinistra di solito liquida questo shock come se fosse causato da paure irrazionali, e propone la convivenza tra etnie e culture come se non potesse essere altro che felice cosmopolitismo.
Si tratta quindi, come si vede, di cambiamenti strutturali che modificano il dna stesso della sinistra riformista. E non è affatto detto che, se non riesce ad adattarsi a questa crisi epocale, essa possa sopravvivervi. I partiti esistono per uno scopo, e se lo smarriscono, rimanendo pure macchine di potere, possono anche sparire o diventare irrilevanti. È dunque essenziale continuare a respirare all’aperto, a far politica, rifuggire dalla tentazione dell’Aventino, tornare utili per la propria gente. Ecco perché non sembra all’altezza del dramma in corso la ricetta che il segretario dimissionario propone al Pd per risorgere: continuare così, mettere su il broncio, e cercare altrove le colpe di ciò che è andato male. Verrà il momento di scelte difficili, forse anche dolorose, e un partito come il Pd le può affrontare solo se è in marcia, non seduto sulla riva del fiume ad aspettare che anche agli altri capiti in sorte la sconfitta.
Né si può contare più solo sulla forza della leadership, quasi come se il problema fosse trovare un nuovo condottiero e non una nuova politica. Gli anni di Matteo Renzi dovrebbero aver chiarito a sufficienza che anche il leader più popolare può diventare rapidamente impopolare, e che perfino nell’epoca dei social la sostanza conta per gli elettori più dell’apparenza (il partito arrivato primo alle elezioni un leader non ce l’aveva nemmeno fino a qualche settimana fa). Vale più che mai nel caso del Pd. La soluzione carismatica è già stata provata quando crollò Bersani. Oggi dietro Renzi non si vede un altro Renzi. E chissà se non sia meglio così.