Fonte: Corriere della Sera
di Fabrizio Roncone
Quale candidato schierare per la poltrona oggi di Virginia Raggi? Il centrosinistra è al lavoro. Calenda, la tentazione forte di scendere in campo
Regola numero uno: accettare gli inviti a cena.
Regola numero due: prendere appunti mentali.
Tutti, l’altra sera, a cena nella casa con vista sugli angioloni di Castel Sant’Angelo, i divani rosso pompeiano, una coppia di levrieri afgani annoiati, tutti sapevamo che, prima o poi, saremmo finiti a parlare di quella roba lì.
È successo tra lo sformato di zucchine e caciocavallo podolico (dimenticabile invenzione di Eddie, il cuoco filippino) e le polpette di bollito fritte (squisite, le polpette non tradiscono mai).
La padrona di casa chiede all’ospite d’onore del Pd: «Allora, ministro: ci confermi che sarà Sassoli il nostro futuro sindaco?». Il ministro, sguardo ambiguo: «Sassoli fa i capricci. Temo che stia pensando a un colle più alto del Campidoglio».
Chiacchiere.
Pettegolezzi.
Colpetti di scena.
Mentre a tavola — direttamente dalla pasticceria preferita da Nanni Moretti — arriva una magnifica Sacher, sul cellulare di un’amica della padrona di casa entra un whatsapp. È Carlo Calenda. «Sono gli ultimi giorni, sto decidendo se candidarmi a sindaco di Roma: tu cosa ne pensi?» (letto ad alta voce, è scattato l’applauso).
Avrete capito: la corsa al Campidoglio sulle macerie di Virginia Raggi – che comunque, sfrontata e imperterrita, si ricandiderà – per noi cronisti è assai sfiziosa; per il Pd, allo stato attuale, molto ingarbugliata. Raccontarla con ordine significa partire dalle proposte di candidatura – formali e informali – avanzate nelle ultime settimane da Zingaretti.
Enrico Letta: «Sei molto caro, però no, grazie». Ha declinato l’invito anche il capo della polizia, Franco Gabrielli (per molti, la soluzione ideale). Massimo D’Alema, sondato con circospezione (certo D’Alema alle prese con i cinghiali che saccheggiano i cassonetti, vabbè). Piaceva tantissimo il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, ma poi tutti hanno convenuto che sarebbe stata dura, nel pieno delle note complesse trattative, dire alla Merkel che Gualtieri, abbia pazienza, non può più venire, perché l’abbiamo messo a fare il sindaco di Roma.
Così un giorno Zingaretti ha pensato: chiediamolo a David Sassoli.
Solo che lui risponde subito: escluso, io voglio continuare a fare il presidente del Parlamento europeo.
A questo punto, cominciano e continuano – forti ancora in queste ore – pressioni varie: perché l’identikit di Sassoli, al Nazareno, davvero appare perfetto per il Campidoglio. Intanto, è un volto popolare, tutti lo ricordano condurre l’edizione serale del Tg1 – quando gli criticavano la cravatta, lui rispondeva sorridendo: «È la cravatta con cui ieri sera ho fatto il 30% di share» – e questo, in una campagna elettorale che partirà in grave ritardo, lo renderebbe subito presentabile anche nelle periferie romane che i big del Pd non frequentano da anni (l’ultima volta, nel 2017, come per penitenza, organizzarono una «direzione» nel circolo di Tor Bella Monaca: attesi dai tigì in diretta, alcuni dirigenti, risalendo la Casilina come fosse il Mekong, sbagliarono però strada).
Altri elementi a favore di Sassoli: è già stato eletto due volte a Strasburgo prendendo tir di preferenze – nel 2009, furono 405.967. E poi ha un rapporto solido con la complicata galassia grillina e con Grillo, che due settimane fa accettò il suo invito per partecipare a un forum on-line (l’idea di Zingaretti è che a Roma – nonostante la candidatura solitaria della Raggi – possa finire come con Emiliano in Puglia e Giani in Toscana, e cioè con gli elettori grillini che, per sbarrare la strada al centrodestra, poi s’accodano al candidato democratico).
Vi chiederete: ma allora perché Sassoli non ne vuole sapere? Risponde un altissimo dirigente dem: «Rispondo a un patto: lei deve promettermi che il mio nome non comparirà». Promesso. «David ha tre grossi problemi. Primo: l’elezione a sindaco è tutt’altro che sicura, sebbene il vento giri a nostro favore. Secondo: fare il sindaco significa guadagnare 4 mila euro netti per dodici mensilità, e cioè niente rispetto a quello che guadagna adesso…». Il terzo problema? «È il più grosso. Qualcuno gli ha messo in testa che può correre per il Quirinale».
Si tratta di fatti e circostanze che non sfuggono a Carlo Calenda – ex ministro fuoriuscito dal Pd, leader di Azione, nemico feroce dei grillini, un romano dei Parioli grintoso e spregiudicato, fanatico, ambizioso e determinato. Dicono che a Bruxelles – è anche europarlamentare – abbia parlato proprio con Sassoli, facendosi confermare la sua indisponibilità a candidarsi e intuendo, così, uno spazio politico importante per guadagnare visibilità: Calenda sa che senza un nome forte, il Pd sarebbe costretto a ricorrere alle primarie che già vengono definite dei «sette nani», come lo stesso Zingaretti ha spiegato ieri ad Antonio Polito sul Corriere (i nomi che parteciperebbero, oltre a quello della senatrice Monica Cirinnà, sono sconosciuti a gran parte dei romani: Giovanni Caudo, Amedeo Ciaccheri, Tobia Zevi).
Calenda è tentatissimo. Sta decidendo se entrare in scena; anzi, forse ha già deciso.
Zingaretti sa tutto. L’appello dell’altro giorno al «senso di responsabilità dei dirigenti», era in realtà un messaggio a Sassoli, contenente un sottotesto: per noi sei il candidato ideale solo per il Campidoglio, scordati il resto (cioè il Quirinale, dove per altro guarda con ambizioni anche il potente Dario Franceschini, che certo non ha gradito l’impuntatura di Sassoli, proprio da lui convinto ad entrare in politica).
Brutto groviglio. E adesso?
Calenda manda messaggi su twitter: «Un suggerimento al @pdnetwork. Qualsiasi decisione sulla capitale d’Italia, deve avere l’obiettivo di portarla fuori dal sottosviluppo in cui versa, non stoppare candidati che non si sono candidati. Ad maiora». Cosa ci leggete? Nelle prossime ore, ne sapremo certamente di più. Intanto, girano altre voci. Pare che Goffredo Bettini stia spingendo per Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio (ma è inutile chiedere conferma a Bettini che, al solito, giurerebbe di non saperne niente, lui non decide niente, e del resto non c’entrava niente nemmeno con l’indimenticabile elezione di Ignazio Marino). Deboli le ipotesi di Roberto Morassut e Massimo Bray, numero uno della Treccani («Bray — dice Ugo Sposetti, severo — prenderebbe voti solo a Piazza Navona, forse»).